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Voi siete mai stati in barca a vela?

Io sì.
In due occasioni.

Io odio la barca a vela.
E la barca a vela odia me.

La prima volta solcai le onde di un laghetto berlinese a bordo di un guscio di noce.
Dopo 5 minuti cambiò il tempo, si scatenò l'inferno, e rischiai di rimanerci secca.
Nella medesima giornata provai, dunque, l'ebbrezza della navigazione a vela e quella del salvataggio da parte di un aitante bagnino.

La seconda volta programmai di trascorrere una settimana nelle acque dell'Isola d'Elba.
La vacanza s'interruppe dopo 4 giorni, causa blocco totale e irrecuperabile del timone.
Il ritorno in porto fu possibile grazie a, provvidenziali ma poco aitanti, pescatori locali.

Nel caso non lo sappiate, ve lo dico io, secondo la credenza popolare le donne portano sfortuna in mare. Molta sfortuna.
Lo so cosa state pensando in questo momento: "Saranno anche stupide superstizioni ma Pancrazia porta proprio una gran iella!"
E invece no! Mi permetto di contraddirvi. Poiché al quadro da me tratteggiato manca volutamente un piccolo, fondamentale particolare.

Io non ero l'unica ad esser presente ad entrambi gli infelici episodi.
C'era anche lui.
Lui chi?
Lui, il celeberrimo ex fidanzato teutonico. Impegnato in quelle occasioni a ricoprire, senza averne l'abilità o l'esperienza, il ruolo dello skipper.

Non si trattò dunque di sfortuna ma di vera e propria incoscienza.
E forse anche del solerte destino, voglioso di farci comprendere che, per il nostro bene e per quello di chi ci stava accanto, fosse il caso di andare ognuno per la propria strada.
A piedi.
All'asciutto.


Mi piace il mais.
Mi piace tanto il mais.
In ogni sua versione. Pop corn, semi tostati, gallette dietetiche.
E le pannocchie intere.
Amo le pannocchie.
Semplicemente bollite e salate.
Da mangiare con la tecnica del castoro o godendomele un chicco alla volta.

Questa mia passione ha un'origine antica. Che fonda le proprie basi nell'innocenza dell'infanzia, nel calore della famiglia ma, forse, anche nel perverso fascino del mistero e del proibito.

Quand'ero ancora una bimba assistevo affascinata ad un curioso rito. Un rito che amavo ma non capivo.
Ogni estate, nella casa in campagna che condividevamo con zii e cugini, si celebrava la giornata delle pannocchie.

Mio padre accostava la macchina accanto ad un enorme campo di granoturco.
Mia madre e mia zia si precipitavano fuori.
"Posso venire anch'io?", chiedevo ogni volta.
"No, resta in macchina. Ci mettiamo un attimo", mi veniva risposto.
E tornavano poco dopo con le braccia cariche di pannocchie.

Per anni sono stata convinta che quest'abitudine familiare fosse normale e lecita. Mai mi sfiorò il dubbio che mia madre e mia zia facessero qualcosa d'illegale.
Le pannocchie erano là ed erano per tutti.

C'è stato un tempo in cui anch'io possedevo un'anima innocente ed inconsapevole.
Sono sempre stata assolutamente impedita per qualsiasi attività sportiva.

Una mezza sega (scusate il francesismo) a pallavolo. Un'inesauribile fonte d'ilarità altrui nelle evoluzioni ginniche. Una vecchietta enfisematosa nella corsa.

Alle elementari avevo già il fiatone da bronchitica e le giunture rumorose da artritica.

L'unica attività fisica in cui io sia mai riuscita discretamente è stata la danza. La danza classica.
Non che fossi una piccola étoile o una Carla Fracci in fasce però, quanto meno, potevo vantare una certa eleganza, una naturale disciplina e un buon orecchio musicale.

Ai saggi, ovviamente, ero solo una delle tante ballerine di fila ma a lezione mi capitò più di una volta di vivere rari e preziosi momenti di gloria. Ciò si verificò durante le cosiddette gare di "esibizioni folli e improvvisate".
In quelle particolari occasioni la nostra insegnante spegneva la musica classica e faceva partire quella pop. E noi, a turno, ci scatenavamo in personalissime coreografie da tarantolate.

Ogni volta portavo a casa la vittoria. Finivo nel trionfo. Mi beavo nell'acclamazione generale.

C'è poco da fare, da piccina come da grande, io ottengo i risultati migliori e le più grandi gioie quando chiudo gli occhi, me ne frego di chi sta a guardare, e mi lascio trascinare dall'istinto.

Sono nata per ballare da sola.
Amo molto la musica ma non sono certo ciò che si dice una grande esperta. Tutt'altro.
Mi lascio travolgere da un ritornello, affascinare da un verso, sedurre da una voce.
Ascolto con le orecchie e con la pancia.
Sono un'onnivora a tratti ingorda e a tratti inappetente.
Una buona forchetta ma non sempre una buongustaia.

Ci sono numerose canzoni che amo e che per me rivestono un significato particolare. Ve ne potrei fare un lungo elenco ma, tutto sommato, chissenefrega?

Oggi voglio parlarvi solo di quel brano che sul mio umore ha sempre un effetto incredibile, quasi magico.
Quello che mi colpisce alle spalle, magari mentre sono bloccata nel traffico, sto correndo a prendere la metropolitana, oppure sto scegliendo il prosciutto dal salumiere.
Quello che arriva, s'insinua nelle mie orecchie, gioca tra i miei neuroni, mi alza gli angoli della bocca, palleggia con i miei fianchi, e scuote in contemporanea piedi e testa.

Non so se al mondo esista qualcuno in grado d'ignorare la malia di zio Phil. Io ne sono incapace.



Non se ne abbiano a male le Supremes, ma a me la cover di Phil Collins piace molto di più della loro versione originale.
Ho visto mille volte "Harry ti presento Sally".
Conosco a memoria tutte le battute di "Quattro matrimoni e un funerale".
Sospiro estatica ogni volta che in televisione ripropongono "Pane e Tulipani".

Ma se dovessi scegliere il mio finale preferito di un film d'amore non avrei alcun dubbio.
Né una sdolcinata confessione a capodanno, né una proposta di "non matrimonio" sotto la pioggia, e neanche una dichiarazione in rima nel parcheggio di un supermercato. Niente di tutto ciò può competere con Michelle Pfeiffer e Al Pacino che si lavano i denti in accappatoio guardando la città che si risveglia.
Niente può competere con la sdrucita quotidianità, la deliziosa imperfezione, l'umana paura e la timida confidenza.

Nessun "ti amo" potrà mai avere il solido e struggente significato di:
"Per sempre e malgrado tutto?"
"Ho 37 anni"

Perché l'amore vero non ha bisogno di poesia ma di presenza.
Perché l'amore vero è fatto di donne con i calzettoni a righe e uomini in canotta.
Perché l'amore vero fa paura e spesso lo si può affrontare solo così. Timidamente. Tenendosi per mano. Con una dolce musica di sottofondo e il bisogno di attaccarsi alle piccole cose per poter gestire quelle più grandi che tolgono il fiato.


Voi lo sapete perché questo posto si chiama Radio Cole?
No, che non lo sapete, a meno che non siate Juhan.
Lui lo sa perché gliel'ho raccontato qualche tempo fa.
E perché a lui l'ho detto e a voi no? Semplice: perché me l'ha chiesto.
Voi me l'avete mai chiesto? No. E allora che volete?

Quando, molti anni or sono, decisi di aprire un blog mi scelsi prima di tutto uno pseudonimo. All'inizio fu J. Cole, poi Jane Cole e un paio di anni dopo venne Jane Pancrazia Cole.
L'unica costante quindi fu il cognome. Cognome ispirato ad una saga letteraria che ho molto amato.
Quale? Troppo facile così, devo dirvi tutto io? E Google che ci sta a fare?

Comunque, tornando alla mia confessione, una volta stabilito che per la blogosfera sarei stata una Cole mi mancava solo da decidere il nome del Blog.
Mentre nella mia testa i due unici neuroni presenti giocavano a ping pong e le tumbleweed (ma quante ne so?) rotolavano sospinte dal vento, improvvisamente mi ricordai di un mio vecchio sogno di bambina.

Da piccola accendevo lo stereo di mia sorella e ballavo. Per ore. Raramente mi soffermavo su ciò che avevano da dire i deejay. Di solito, appena una voce invadente s'inseriva sulla musica, cambiavo immediatamente stazione alla ricerca di qualche altro pezzo che mi piacesse. Facevo zapping isterico ed irritante, portando all'esasperazione tutti coloro che avessero la sventura di gravitare intorno a me e al mio passatempo preferito.

Ma, nonostante questa mia nevrotica abitudine, per strane e misteriose vie rimasi comunque affascinata dalla figura del conduttore radiofonico. No, non dall'orrido deejay che parla giovane pure a 50 anni (Linus chi?). Ma dalla voce calma e saggia che ti culla con le parole, che ti lega con le proprie corde vocali, che ti strega come un pifferaio magico. Quella voce che non spezza le note ma le arricchisce.

Cosa avrei dato per poterlo fare anch'io. M'immaginavo all'interno della mia(!) stazione radiofonica privata, come un'imperatrice egocentrica e delirante. M'immaginavo mentre, senza dover rendere conto a nessuno, mettevo solo la musica che piaceva a me, parlavo solo delle cose che interessavano a me, e filosofeggiavo profondamente senza contradditorio alcuno.
Il mestiere ideale per qualsiasi piccola dittatrice in erba.

Sta di fatto che, molti anni dopo, seduta alla mia scrivania, di fronte alla schermata di Blogger che pretendeva di essere compilata, questo mio vecchio sogno riaffiorò in superficie e diede vita proprio a Radio Cole. La mia stazione radiofonica personale, dove scrivere di tutto ciò che mi passava (e mi passa) per la testa, in maniera del tutto anarchica, disorganizzata, e allegramente disordinata.

Insomma, questo blog è un vero e proprio sogno di bambina diventato realtà. Vi pare poco?
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