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Bruno Schulz fu un bambino con un corpo gracile sormontato da una testa sproporzionata.
Crescendo divenne un pittore e uno scrittore dal talento immenso e le potenzialità infinite. Eredità preziosa lasciatagli da un padre scomparso troppo presto, ma mai dimenticato.

Bruno Schulz fu uno dei tanti ebrei polacchi morti durante il nazismo. Morto per sbaglio o per superficialità. Morto senza una ragione o per una ragione sciocca. Volato via lasciando dietro di sé tracce indelebili su libri, illustrazioni ed anche sulle vecchie pareti di un anonimo appartamento a Drohobycz.
Tracce raccolte con sensibilità e riconoscenza dalla penna felice di Nadia Terranova, e dal tratto lieve di Ofra Amit.

Da questa fortunata collaborazione è nato un racconto illustrato, "Bruno, il bambino che imparò a volare", edito da Orecchio Acerbo.
Una storia poetica e delicata. Parole ricche e magiche che trasportano il lettore in un mondo meraviglioso e disperato al tempo stesso. Immagini impalpabili e struggenti che si sposano, s'intrecciano, danno profondità, spessore, ma anche leggerezza e vertigine.

Un libro grande, con una copertina rigida, e il profumo delle care letture amate da ragazzi.
Un libro da guardare, accarezzare, cullare, abbracciare, annusare, ascoltare e mangiare.
Un libro da conservare come un tesoro. Per essere tirato fuori quando si sente il bisogno di poesia, quando si trova qualcuno di speciale con cui condividerlo, quando i bambini che amiamo saranno abbastanza grandi da apprezzarlo, ma non così tanto da viverlo con la struggente nostalgia degli adulti.

Bruno, per quanto mi riguarda, sarà un dono da lasciare ai miei figli, se ne avrò, o a mio nipote. Da lasciare a chi avrà la volontà di leggerlo a se stesso e agli altri.
Una flebile luce partita da un'anima grande, rinfocolata da due donne talentuose e sensibili, e infine custodita da tutti. Anche da me.

In passato vi ho già spiegato il mio amore per il Natale ma anche il mio odio viscerale per Capodanno e Primo d'Aprile, con annesse ataviche motivazioni di carattere psicotraumaticosentimentalscolastico. Ora è venuto il momento che vi parli del mio tormentato rapporto con il Carnevale.
IO ODIO IL CARNEVALE.
Fin da piccolina non ho mai amato travestirmi e, crescendo, questa mia avversione non ha fatto altro che peggiorare.

Vi spiego il perché, regalatemi cinque minuti, lasciatemi il tempo di sdraiarmi sul lettino virtuale del blogger-analista per svelare al mondo le origini di siffatta idiosincrasia.
Come ben sapete ho una sorella, nello specifico una sorella maggiore, molto più grande di me, praticamente ormai un pezzo da museo. A dividerci ci sono ben 8 anni.
Da tipica secondogenita ho ricevuto in eredità parte dei suoi abiti smessi. Nonostante io appartenga alla generazione di bim bum bam e del rosa shocking, ho frequentato le elementari con un look da fricchettona anni '70, abbigliata con maglioncini stretti a dolce vita, pantaloni a zampa d'elefante, e velluto a coste come se piovesse.

Ma non ho ereditato solo il guardaroba per tutti i giorni, magari! Mi sono beccata anche gli abiti di carnevale riciclati. Del resto, ai tempi miei, non si buttava via niente e quando i genitori compravano un costume lo prendevano bello grosso, da farci crescere dentro il pupo per almeno 3 anni, e poi passarlo agli sfortunati successori.
Nel nostro intoccabile baule delle meraviglie, tra coperte, centrini ed ammennicoli vari, venivano accuratamente conservati anche gli unici due abiti carnevaleschi acquistati molti anni prima per SorellaCole. C'erano la fatina e la spagnola.
Io, ogni inverno, all'apertura rituale della cassapanca guardavo con bramosia e vacua speranza la bacchetta con la stella argentata, l'acciaccato cappello a punta, ed i metri di vaporoso tulle. Ma MammaCole, al motto di "Questo vestito è troppo vecchio e rovinato, meglio l'altro", si buttava sempre sulla cultura andalusa e sceglieva arbitrariamente di abbigliarmi da sfigatissima ballerina di flamenco.

Voi sapete cosa vuol dire essere travestita da spagnola? Le più "adulte" tra le mie lettrici probabilmente sì. Perché tra gli anni '70 ed '80 quel sobrio abitino carnevalesco fu un vero e proprio must. Pizzi e merletti neri, sparsi a profusione sopra un capolavoro d'eleganza rosso fuoco. Un orrore che non avrebbe messo neanche una Drag Queen cieca da un occhio!
Eppure, in realtà, il discreto abitino per me era il meno da sopportare! Ciò che mi disturbava maggiormente era il trucco. Mia madre e mia sorella mi braccavano in bagno fino a quando non mi rassegnavo a farmi conciare da battona iberica: litri di rimmel, strati e strati di matita, fard, rossetto e un bel neo finto a concludere l'opera.
Non credo sia un caso che non esistano prove fotografiche al riguardo: Zeus, o chi per esso, mosso a pietà deve averle incenerite tutte con un fulmine ben diretto!

Dopo anni di questa tortura, un lieto indimenticabile pomeriggio m'illusi di essere giunta finalmente al termine del tunnel. Mia madre fu costretta, con suo sommo dispiacere, a prendere coscienza del fatto che fossi diventata troppo alta per vestire i panni della ballerina di flamenco. Le maniche ormai mi arrivavano ai gomiti e la gonna, diventata mini, lasciava scoperti calzettoni di lana, jeans e scarpe da ginnastica. Un vero orrore!
Io non feci neanche in tempo a gioire, che la mia genitrice ebbe subito un'altra malsana idea. Forte del suo passato da sartina, corse in edicola ad acquistare una di quelle famigerate riviste con i cartamodelli, e scelse di farmi un bell'abitino nuovo di zecca, su misura, tutto per me. Anche in quell'occasione, ovviamente, la mia opinione venne considerata superflua e quindi non richiesta.

Dopo una settimana di misure e prove finalmente il capolavoro venne terminato. Fui vestita, acconciata, e truccata solo con un poco di fard a ravvivarmi l'incarnato verde ramarro. Poi, piazzatami davanti allo specchio, MammaCole esclamò orgogliosa: "Talia come sì pulita" (trad. siculo-italiano: "Guarda come sei carina!")
E io mi guardai.
Avevo su un vestitino rosso con maniche a sbuffo, un ampio grembiule a quadretti e una tremenda cuffiona legata sotto il mento. No, quella di MammaCole non era un'interpretazione postmoderna di Cappuccetto Rosso, magari! Non sarei mai potuta essere la protagonista di una favola, sarebbe stata una cosa troppo appagante, così si sarebbe corso il rischio di alzare di qualche tacca la mia ridottissima autostima, così si sarebbe corso il rischio di farmi uscire per mezza giornata dal ruolo assegnatomi di sorellina cessa.
Non sia mai!!! E di che avrebbe vissuto altrimenti la mia analista venticinque anni dopo? E di cosa avrei parlato altrimenti io sul mio blog?

Il rosso abitino, confezionatomi con tanto amore e dedizione, era da contadina. Aspettate, lo scandisco meglio, nel caso non abbiate capito: C-O-N-T-A-D-I-N-A.
Interpellate una bambina qualsiasi, chiedetele da cosa vuole vestirsi per Carnevale, nessuna bambina in questo emisfero come nell'altro, adesso come vent'anni fa, vi risponderebbe mai la contadina. MAI. Le bimbe vogliono essere ballerine, principesse, quelle più volitive magari anche piratesse ma lavoratrici dedite all'agricoltura, no. MAI.

E poi una si chiede perché a vedere i coriandoli mi venga l'orticaria. Non avevo neanche ancora 8 anni quando mia madre mi fece velatamente capire di "andare a zappare la terra!"
Sono cose che segnano queste, altroché.

Ora scusatemi, debbo lasciarvi, torno ad autoflagellarmi.
SorellaCole: Abbiamo comprato il vestito di carnevale per il piccolino. Sarà bellissimo!
Jane Pancrazia: Ma che tenerezza. E dimmi: cosa gli avete preso? Un bel costume da Principe nobile e coraggioso?
SC: No, veramente no.
JP: Cavaliere senza macchia e senza paura?
SC: No, non proprio. Abbiamo optato per qualcosa di diverso. Più moderno, diciamo.
JP: Avete fatto bene. Con un bel supereroe non si sbaglia mai. Avete scelto Spider-Man, vero? Il supereroe più super che ci sia!
SC: No, in verità, sei ancora un pochetto lontana.
JP: E allora mi arrendo. Da cosa lo vestirete?
SC: Topino.
JC: ...
SC: Un adorabile topino.
JC: ...
SC: Un simpaticissimo topino.
JC: Vestirete MIO nipote da SORCIO???
SC: Non da sorcio, da topino!
JC: E' lo stesso!
SC: Ma no, che non è lo stesso. Mantieni la calma. Cerca di affrontare la questione in maniera lucida e razionale. E' troppo piccolo per i costumi che piacciono a te. Per la sua età sono più adatti quelli teneri, da cucciolotto.
JC: Ma non potevi conciarlo da tenero orsacchiotto? Tenero scoiattolino? Tenero coniglietto saltellante? Proprio da pantegana fetente???
SC: Non è un vestito da pantegana ma da dolce topino con papillon annesso.
JC: Perfetto! Sorcio con tanto di ridicolo farfallino. Così mortificherete anche il suo senso estetico oltre che la sua dignità, ma bravi!!!

Ogni zia che si rispetti ha dei compiti da assolvere.
Compito numero uno: amare follemente il proprio nipote.
Compito numero due: preoccuparsi che non sia mai lesa l'onorabilità e l'innata eleganza del proprio nipote.
Compito numero tre: sfrantecare pazienza e certezze della propria sorella, nonché madre del succitato nipote.

Io sono una zia che prende molto seriamente il proprio ruolo.

Ovviamente PrincipeV è bellissimo con il suo vestito da topino, ma io non lo ammetterò mai, neanche sotto tortura.

Ah, quasi dimenticavo, ora mia sorella mi odia. Missione compiuta!
Lei, Monna Pane, guarda Ser Balaustrone con occhi d'incanto e d'amore. Incompresa e fragile, vive il proprio sentimento con muta rassegnazione.
Protetta solo da un velo, percorre con passo lieve un'esistenza da crisalide inversa.
Non sarebbe tutto più facile se ognuno di noi arrivasse con un libretto delle istruzioni? Come un frigorifero o una macchina fotografica.
Certo, forse sarebbe meno divertente, ma di sicuro più semplice.
Così sai com’è che funziono. Mica perché sei tonto, è che siamo tutti ingranaggi.

Questo è ciò che si legge sulle pagine di Tumblr dedicate a "Istruzioni per l'uso", un progetto fotografico di Marina Abatista.

Un progetto che aveva già attirato la mia attenzione mesi fa ma che, per mancanza di tempo e organizzazione, non ero ancora riuscita a segnalarvi. Ora però siamo agli sgoccioli: domani e dopodomani saranno gli ultimi giorni disponibili per farsi fotografare con il proprio libretto d'istruzioni annesso.

Quindi, nel caso siate di Milano e d'intorni e l'idea v'incuriosisca, vi suggerisco di affrettarvi. Contattate la responsabile e svelate al mondo il segreto del vostro funzionamento.

Pagina ufficiale: Istruzioni per l'uso.
marinella83@gmail.com
(Prima parte.)

Quando si è una ragazza di poco più di vent'anni si ha il guardaroba pieno di vestiti adatti ad ogni stagione.
Attenzione, non sto parlando di abiti nati per andare bene con ogni temperatura. Ciò sarebbe saggio e utile, e non è assolutamente questo il caso!
Parlo di frivoli abitini sottoveste che le ventenni si ostinano a portare in qualunque periodo dell'anno: per il veglione di san Silvestro come per il falò di ferragosto. Indifferentemente.
E' inverno? Ci si piazzano sotto dei collant ed un paio di stivali. E' estate? Li si abbina con dei sandali.

Se poi sei una ragazzetta inglese ubriaca i sandali te li metti pure a gennaio, ma questo è un altro discorso.

Io e le mie degne amiche, in quanto ventenni, quel lontano 31 dicembre del 2000, a 1200 metri d'altitudine, tra le vette innevate piemontesi, scegliemmo un abbigliamento che sarebbe stato perfetto anche per un aperitivo ai Caraibi.
A nostra difesa voglio solo ricordare che la festa si sarebbe dovuta tenere in un caldo appartamento. Teoricamente un giaccone ed un paio di scarpe chiuse sarebbero stati più che sufficienti per superare il tragitto auto-portone. Ma così, ovviamente, non fu.

Gnocche più che mai raggiungemmo tronfie l'ingresso del party. Suonammo il campanello, l'uscio si aprì, e in un attimo fummo travolte da un branco di piumini, sciarpe, doposci e cappellacci di lana.
"Evviva: andiamo ad aspettare la mezzanotte sulle piste!", vociò gaio l'informe gruppone adeguatamente abbigliato mentre guadagnava l'uscita.
"...", rispose pietrificato il manipolo di minigonne fascianti e mocassini appena lucidati. Perché, a ben guardare, anche gli esponenti maschili della comitiva avevano optato per un abbigliamento leggero ed urbano.

Dopo interminabili minuti trascorsi sulle scale a guardarci con gli occhi persi. Il più "coraggioso", il più incosciente, il montone capo del gregge di pecoredilanaprivate cui appartenevo, si erse nel suo metro e 60 cm scarsi di altezza e, forte del calore infusogli dal limoncello bevuto prima di uscire, esclamò con voce stentorea: "Non vorremo mica farci ridere dietro da questi? Non vorremo mica fare la figura dei soliti fighetti di città? Andiamo anche noi sulle piste!", urlò precipitandosi verso l'uscita.
E noi, idioti, dietro a lui.

Ovviamente io, che mi metto il golfino anche a luglio, cercai di oppormi.
"Ma guardate che moriremo di freddo."
"Quante storie! Dovremo resistere solo pochi minuti."
Pochi minuti.
Pochi minuti un par di balle.
Stazionammo sulle piste da sci dalle 11 all'una di notte.
Voi avete idea di cosa voglia dire stare due ore vestiti da sera in piedi su una pista da sci? Io sì.
Voi avete idea di cosa voglia dire avere talmente freddo da desiderare di darsi fuoco? Io sì.
Voi avete idea di cosa si provi ad avere un vestitino leggero con sopra un cappottino altrettanto leggero e, per sbaglio, finire in mezzo ad una battaglia di palle di neve? Io no. Ma la mia amica C sì, e ancora va in analisi per superare il trauma!
Fu un vero miracolo che nessuno di noi perse per il freddo qualche falange. Io, a distanza di anni, ancora mi conto con orgoglio e commozione le mie dieci cazzutissime dita dei piedi che, nonostante l'ipotermia acuta e contro ogni legge fisica, quella notte scelsero di rimanermi fedelmente attaccate.

Grazie care, approfitto di questa occasione per ringraziarvi pubblicamente.

Furono le 2 ore più lunghe della mia vita e, ad onor del vero, non solo della mia. Ben presto lo sconforto ci travolse tutti e, con l'ultimo briciolo di orgoglio e folle irrazionalità rimastoci, decidemmo di non ripresentarci davanti all'uscio dei simpatici montanari che ci avevano tirato un pacco sì grande e sì gelido. E prendemmo a vagare sconsolati per il paese, cercando riparo in ogni locale, ogni baretto, ogni pertugio dell'amena località sciistica.
Ormai eravamo in giro e il capodanno l'avremmo festeggiato così: a membro di segugio!

Ogni posto era strapieno e noi eravamo troppi: mentre il primo riusciva a raggiungere il bar e ordinare qualcosa, due terzi del gruppo erano ancora fuori a spingere, spintonare, e cercare con poca fortuna di entrare.
Nel disperato ed inutile tentativo di scaldarci ci attaccammo ad ogni forma di alcool disponibile. Qualcuno vi dirà di avermi vista addirittura sfondare a spallate la vetrina di una profumeria e scolarmi una confezione da mezzo litro di Just Cavalli Parfume. Costui mente sapendo di mentire.
Era Chanel numero 5. Sono una donna di classe io.
La mia amica S, fino a quel momento astemia, in stato di evidente alterazione alcolica, mi costrinse ad accompagnarla in bagno. Nel senso che la dovetti proprio accompagnare fino a dentro il cesso, e tenerle la manina mentre lei, colta da un attacco di ridarella, cercava di mantenere l'equilibrio su una turca e non farsela sulle scarpe.
Che bei momenti.

Alla fine tornammo stremati, bagnati e incacchiati come bisce nel nostro monolocale. Ci insaccammo come cacciatorini nei sacchi a pelo e perdemmo i sensi su ogni superficie utile: letti, divani, tappeti, vasche da bagno e tavoli da pranzo.

Io e il fedele amico O scappammo a valle appena si fece giorno. Senza guardarci indietro. E con Michele Zarrillo e la sua stracacchio di rosa blu a farci da colonna sonora.
I miei lettori più antichi e attenti se ne ricorderanno: nel mio passato, ricco di ex fidanzati e grandi amori, fa bella mostra di sé una relazione durata quattro anni con un ragazzo tedesco.

Fin da subito io venni accolta con affetto e gentilezza da tutta la sua famiglia. Dalle sue bellissime sorelle, dalla sua timida madre, e dal suo esuberante padre. Da tutti, anche dai suoi nonni. I nonni paterni.

Herbert ed Edeltraut avevano entrambi i capelli candidi, gli occhi trasparenti, e la pelle sottile e stropicciata.
La signora Edeltraut vantava i medesimi difetti di tutte le nonne del mondo. Era impicciona e sempre troppo ansiosa. Io le piacevo perché ero ordinata, educata e non chiassosa. Inoltre ero amata dal suo nipote preferito, e ciò bastava a pormi ad un livello superiore, dotata di chissà quali peculiari virtù.
La signora Edeltraut era gentile ma non particolarmente simpatica.

Nonno Herbert invece era spiritoso e pieno di vita. Quel genere di uomo anziano che dice alla moglie bacchettona "Lascia in pace i ragazzi, sono giovani!"
Il suo sogno era un viaggio in moto oltre confine a ritrovare il proprio borgo natio, situato ormai in territorio polacco.

La prima volta che lo incontrai mi disse: "Sei di Torino? Io sono stato a Torino" "Davvero?" "Sì, tanto tempo fa, durante la guerra."
Me lo disse vestendo il suo completo di lino bianco sotto un caldo sole estivo. Non aggiunse altro ed io cambiai discorso imbarazzata.

Nonno Herbert mi accolse nella sua famiglia con slancio. Io divenni la sua quinta nipote e lui divenne il mio quinto nonno. Quando venne a mancare lo piansi come avevo pianto gli altri e, ancora adesso, penso a lui come penso agli altri.

Mi piacerebbe raccontarvi che fu un eroe, che nascose un ebreo in cantina o che si oppose al regime. Ma mentirei. Il mio quinto nonno visse quella Germania accettandone e condividendone le regole. Ed io ho accetto di amarlo nonostante questo.
Non ci sono giustificazioni. Non ci sono spiegazioni. Non gliel'ho mai chieste. Non sarebbe stato in grado di darmele.
Esiste sempre un'alternativa, seppur dolorosa e difficile, lui semplicemente non la scelse.

Nonno Herbert mi ha insegnato che le persone normali, le persone gentili, le persone simpatiche possono rendersi complici di terribili nefandezze. Ed è anche per questo che noi tutti, noi normali, noi gentili, noi simpatici, noi "che al posto suo non l'avremmo mai permesso", dobbiamo continuare a ricordare l'orrore ogni anno e ogni giorno.

Chiunque può caderci, chiunque può decidere di chiudere gli occhi, per proteggere i propri cari, per proteggere se stesso o semplicemente perché è molto più facile.

Ognuno di noi deve vigilare sugli altri e soprattutto su di sé. Ogni giorno deve essere il giorno della memoria.
Freddo e puntuto, se ne sta per i fatti propri, non parla con nessuno, non ha amici e neanche amanti all'interno dell'astuccio.
Un cavaliere in attesa della propria missione. Un crociato in partenza per la Terra Santa. Un monaco in cammino verso l'illuminazione.
Egli vive per le giovani mani impazienti che un giorno lo aiuteranno a compiere il proprio destino: il cerchio perfetto.
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