Radio cole
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Amo molto la musica ma non sono certo ciò che si dice una grande esperta. Tutt'altro.
Mi lascio travolgere da un ritornello, affascinare da un verso, sedurre da una voce.
Ascolto con le orecchie e con la pancia.
Sono un'onnivora a tratti ingorda e a tratti inappetente.
Una buona forchetta ma non sempre una buongustaia.

Ci sono numerose canzoni che amo e che per me rivestono un significato particolare. Ve ne potrei fare un lungo elenco ma, tutto sommato, chissenefrega?

Oggi voglio parlarvi solo di quel brano che sul mio umore ha sempre un effetto incredibile, quasi magico.
Quello che mi colpisce alle spalle, magari mentre sono bloccata nel traffico, sto correndo a prendere la metropolitana, oppure sto scegliendo il prosciutto dal salumiere.
Quello che arriva, s'insinua nelle mie orecchie, gioca tra i miei neuroni, mi alza gli angoli della bocca, palleggia con i miei fianchi, e scuote in contemporanea piedi e testa.

Non so se al mondo esista qualcuno in grado d'ignorare la malia di zio Phil. Io ne sono incapace.



Non se ne abbiano a male le Supremes, ma a me la cover di Phil Collins piace molto di più della loro versione originale.
Ho visto mille volte "Harry ti presento Sally".
Conosco a memoria tutte le battute di "Quattro matrimoni e un funerale".
Sospiro estatica ogni volta che in televisione ripropongono "Pane e Tulipani".

Ma se dovessi scegliere il mio finale preferito di un film d'amore non avrei alcun dubbio.
Né una sdolcinata confessione a capodanno, né una proposta di "non matrimonio" sotto la pioggia, e neanche una dichiarazione in rima nel parcheggio di un supermercato. Niente di tutto ciò può competere con Michelle Pfeiffer e Al Pacino che si lavano i denti in accappatoio guardando la città che si risveglia.
Niente può competere con la sdrucita quotidianità, la deliziosa imperfezione, l'umana paura e la timida confidenza.

Nessun "ti amo" potrà mai avere il solido e struggente significato di:
"Per sempre e malgrado tutto?"
"Ho 37 anni"

Perché l'amore vero non ha bisogno di poesia ma di presenza.
Perché l'amore vero è fatto di donne con i calzettoni a righe e uomini in canotta.
Perché l'amore vero fa paura e spesso lo si può affrontare solo così. Timidamente. Tenendosi per mano. Con una dolce musica di sottofondo e il bisogno di attaccarsi alle piccole cose per poter gestire quelle più grandi che tolgono il fiato.


Voi lo sapete perché questo posto si chiama Radio Cole?
No, che non lo sapete, a meno che non siate Juhan.
Lui lo sa perché gliel'ho raccontato qualche tempo fa.
E perché a lui l'ho detto e a voi no? Semplice: perché me l'ha chiesto.
Voi me l'avete mai chiesto? No. E allora che volete?

Quando, molti anni or sono, decisi di aprire un blog mi scelsi prima di tutto uno pseudonimo. All'inizio fu J. Cole, poi Jane Cole e un paio di anni dopo venne Jane Pancrazia Cole.
L'unica costante quindi fu il cognome. Cognome ispirato ad una saga letteraria che ho molto amato.
Quale? Troppo facile così, devo dirvi tutto io? E Google che ci sta a fare?

Comunque, tornando alla mia confessione, una volta stabilito che per la blogosfera sarei stata una Cole mi mancava solo da decidere il nome del Blog.
Mentre nella mia testa i due unici neuroni presenti giocavano a ping pong e le tumbleweed (ma quante ne so?) rotolavano sospinte dal vento, improvvisamente mi ricordai di un mio vecchio sogno di bambina.

Da piccola accendevo lo stereo di mia sorella e ballavo. Per ore. Raramente mi soffermavo su ciò che avevano da dire i deejay. Di solito, appena una voce invadente s'inseriva sulla musica, cambiavo immediatamente stazione alla ricerca di qualche altro pezzo che mi piacesse. Facevo zapping isterico ed irritante, portando all'esasperazione tutti coloro che avessero la sventura di gravitare intorno a me e al mio passatempo preferito.

Ma, nonostante questa mia nevrotica abitudine, per strane e misteriose vie rimasi comunque affascinata dalla figura del conduttore radiofonico. No, non dall'orrido deejay che parla giovane pure a 50 anni (Linus chi?). Ma dalla voce calma e saggia che ti culla con le parole, che ti lega con le proprie corde vocali, che ti strega come un pifferaio magico. Quella voce che non spezza le note ma le arricchisce.

Cosa avrei dato per poterlo fare anch'io. M'immaginavo all'interno della mia(!) stazione radiofonica privata, come un'imperatrice egocentrica e delirante. M'immaginavo mentre, senza dover rendere conto a nessuno, mettevo solo la musica che piaceva a me, parlavo solo delle cose che interessavano a me, e filosofeggiavo profondamente senza contradditorio alcuno.
Il mestiere ideale per qualsiasi piccola dittatrice in erba.

Sta di fatto che, molti anni dopo, seduta alla mia scrivania, di fronte alla schermata di Blogger che pretendeva di essere compilata, questo mio vecchio sogno riaffiorò in superficie e diede vita proprio a Radio Cole. La mia stazione radiofonica personale, dove scrivere di tutto ciò che mi passava (e mi passa) per la testa, in maniera del tutto anarchica, disorganizzata, e allegramente disordinata.

Insomma, questo blog è un vero e proprio sogno di bambina diventato realtà. Vi pare poco?
C'è stato un tempo in cui i blogger si tormentavano tra loro con meme e premi.
Catene di Sant'Antonio che, nascoste o meno dietro il pretesto di un'onoreficenza, avevano lo scopo unico di sbertucciare, infastidire e, solo nel più raro e positivo dei casi, complimentarsi con il blogger preso di mira.

C'è chi queste catene le spezzava per partito preso, chi rispondeva per educazione ma con poco slancio ma anche chi, ogni volta, accettava la sfida e s'impegnava a tirar fuori post di risposta originali e creativi.

Io appartenevo all'orgogliosa e cazzara ultima categoria. E, soprattutto per quanto riguarda i premi, non mi sono mai risparmiata nella ricerca di soluzioni deliranti, divertenti, e sufficientemente pacchiane.

Non ci credete?
Date un'occhiata a questi tre fulgidi e datati esempi:
Jane's Angels
jAne-Team 
Cronaca dal Red Carpet

Ma come mai ho scelto di dedicare un Radio Cole Graffiti a un argomento del genere?
Innanzitutto, perché ultimamente ho scritto troppe cose serie, e quasi non mi si riconosce più.
E poi perché la brava Clarina un mese fa mi ha coinvolta in un meme (ebbene sì, esistono ancora!) . E io, con la mia solita flemma, mi sono finalmente decisa a rispondere alla sua richiesta.


Il giochetto consiste, prima nel confessare 11 cose di sé, e poi nel rispondere a 11 domande proposte da Clarina stessa.

Intanto, da domani, comincerò le torride ed eccitanti confessioni, poi si vedrà.
Non è detto che sia facile scegliere un post da riproporre.
Molte delle cose che scrivo sono legate ad uno specifico momento e quindi replicarle a distanza di mesi o anni risulterebbe stonato e fuori luogo.

I post più adatti per questa rubrica dovrebbero essere quindi quelli senza tempo. Senza alcun legame con una data, una situazione o un evento.

Questa è la regola generale. Ma come ogni regola che si rispetti ha anche un'eccezione.

L'eccezione è rappresentata da Franchino e Dora. Protagonisti di un racconto che avevo dedicato ai miei lettori il 30 dicembre del 2010.
Un post per le festività che si concludeva con un augurio speciale di felice anno nuovo.
Un augurio che valeva alla fine del 2010 ma vale anche oggi, domani, e persino dopodomani.

"Nei prossimi 365 giorni ricordatevi che:
le scelte più sagge non sono necessariamente le migliori,
bisogna saper rischiare,
e non è mai troppo tardi.

Solo voi potete sapere cosa vi rende davvero felici,
non lasciate che sia qualcun altro a scegliere al vostro posto." 

Prendete nota delle mie parole perché: come do i consigli io, non li da nessuno.
E soprattutto: come NON seguo i miei saggi consigli io, NON li segue nessuno.

La prima volta di Franchino e Dora.
Franchino e Dora si sono incontrati per la prima volta poche settimane fa, per caso, in un caffè.
Lui era da solo e lei con le sue amiche.
Lui ha sorriso, lei è arrossita e da quel momento non si sono più lasciati.
Continua...
Un anno di gioia e dolore, pianti e sorrisi, perdite e incontri.
Un anno di "Non ce la faremo mai".
Un anno di "Come abbiamo fatto finora senza di lui?"
Un anno di giardinetti, altalene, scivoli e ludoteca.
Un anno di pappa, nanna, pannolini e vasino.
Un anno di poco sonno e tante risate.
Un anno di coccole e capricci.
Un anno di bernoccoli e spaventi.
Un anno di favole e canzoni.
Un anno di urla e paura.
Un anno di "Ti voglio bene come il mondo"
Un anno di "Ti voglio bene più del mondo"
Un anno di "Gli vorrò abbastanza bene?"
Un anno di "Mi toglie il fiato il bene che gli voglio!"
Un anno di mamma e papà.
Un anno di famiglia.

È passato un anno da quel primo incontro: auguri a tutti e tre!

Lo scorso febbraio scrissi un post sulle vecchie canzoni dei cantautori italiani.
Scrissi di quanto queste mi piacessero ma anche del dolore provocatomi dai finali struggenti. Raccontai di come da bambina risolvessi la questione inventando trame diverse. Trame in cui agli sfortunati protagonisti veniva data una seconda e più felice alternativa.

Destino volle che, poche settimane dopo, venisse a mancare Lucio Dalla, interprete del brano 4 marzo 1943. Quel giorno sentii la necessità di mettere per iscritto il finale diverso, che era frullato nella mia testa riccia fin da quand'ero piccina.

Poi, però, per pudore questo racconto è rimasto nelle bozze.
Perché crescendo ci si rende conto che non c'è sempre bisogno di un lieto fine, e che certe cose sono già perfette così come sono.

Oggi mi è tornata in mente questa storia e ho pensato a Lucio Dalla, a com'era lui, o meglio, a come appariva a tutti noi che non abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo.
Io me lo vedo così, con la barba e il sorriso storto, che mi dice: "Ma chi te lo fa fare di prenderti tanto sul serio? Pubblica sto racconto e beviti un quartino, Pancrazia!"
Lui non mi avrebbe mai chiamata Jane. Lui sicuramente avrebbe preferito Pancrazia.

E quindi oggi vi racconto il mio 4 marzo 1943.
Perché non ci sono mai abbastanza lieti fine nel mondo. E tutti, specialmente gli innamorati, dovrebbero goderne.

Dice che era un bell'uomo e veniva,
veniva dal mare
parlava un'altra lingua,
però sapeva amare
e quel giorno lui prese a mia madre
sopra un bel prato
l'ora più dolce prima di essere ammazzato.

Quella mattina lo trovarono con la pancia aperta, gli occhi all'infuori e la lingua penzoloni. Una scena da far accapponare la pelle. Una scena da morire impressionati.

Nicola era un baro e tutti gli volevano male. Due sere prima aveva persino provato a fare il furbo con lo Straniero. Ma questi si era messo a bestemmiare in una lingua antica, aveva fatto volare carte e bicchieri, e poi gliene aveva date tante ma tante da sbucciarsi le nocche.

Fu per questo motivo che, quando trovarono Nicolino ridotto a quel modo, diedero tutti la colpa all'ultimo arrivato e corsero a cercarlo. Sicuramente era stato lui a fargliela pagare, a finire la lezione, ad aprirlo come un capretto. Senza neanche un poco di carità cristiana, senza neanche un pezzo di cuore o di pietà. "Della gente che viene da fuori non ci si può fidare, sono bestie cresciute senza Dio", urlò Franco il fornaio. E tutti gli uomini del paese, armati di mazze e bastoni, corsero a cercare lo Straniero.

Maria era bella, giovane e coi ricci stretti come fusilli. Quando gli uomini le si avvicinavano li scacciava via con la scopa. Come una strega. Perché era bella, giovane, coi ricci stretti come fusilli ma non era una zozza.
Il parroco ancora zoppicava per la botta che s'era preso sulla coscia, razza di porco. L'appuntato non aveva saputo proprio come spiegare il bernoccolo sulla fronte, e per una settimana per la vergogna s'era guardato solo la punta delle scarpe. E il pastore aveva detto a tutti che s'era fatto male mettendosi sul groppone un montone, ma nessuno c'aveva creduto veramente.

Lo Straniero s'era infilato nel letto della bella Maria senza bisogno di parole, regalini o prepotenze. S'erano visti in piazza. A lei si era sciolto il cuore e s'erano aperte le gambe. Lui si era presentato alla porta della stanza vicino al porto, ed era rimasto tutta la notte a farle cantare corpo e gola. Prima sul piccolo letto di paglia e poi sul prato dietro la casa, nudi come due pupi a guardare le stelle e contare i sospiri.
Stavano ancora abbracciati sull'erba umida quando sentirono avvicinarsi la folla. La folla che urlava e si gonfiava come il mare. La folla senza testa ma con tante braccia. La folla cattiva come una creatura del demonio.

Lui scappò verso la collina e Maria rimase ad aspettare quelle furie con la scopa in mano.
"Dove l'hai messo quell'assassino, dove l'hai nascosto, puttana che non sei altro?", le urlarono contro mentre lei mostrava i denti e soffiava, peggio d'una gatta arrabbiata.

Per tutto il giorno e fino a notte fatta gli uomini continuarono a cercare lo Straniero.
"Andiamo alla cappella", diceva Franco il fornaio, e intanto nascondeva il coltello dietro la bottega. "Proviamo al faro", suggeriva mentre quella svergognata di sua moglie gli lavava la camicia zozza di sangue.
Lavava e piangeva. Piangeva per l'amore suo, il suo Nicolino che tante cose belle gli aveva promesso. Piangeva perché si ritrovava di nuovo sola con un marito senza poesia ma le mani pesanti, e la rabbia nel cuore.

Ogni tanto a qualcuno il dubbio gli veniva e allora guardava Franco di traverso. La storia della moglie sua e del baro la sapevano tutti. Ma comunque era meglio dare la colpa allo Straniero. Che tanto pure se l'assassino non era lui, qualche altra porcheria doveva averla combinata di sicuro. Veniva da fuori e chissà di chi era figlio.

Quella notte Maria tornò a dormire sul prato, a pensare all'amore suo, e a piangere un poco. Solo un poco però. Perché lei le lacrime le aveva finite quasi tutte da piccola. E aveva imparato che non servivano a niente. Solo a farti venire gli occhi rossi e la faccia brutta.

Maria stava rannicchiata a giocare con i fili d'erba quando sentì un fischio leggero e il profumo di terra lontana. Si mise seduta e lo vide. Lo Straniero stava in piedi in cima alla collina.
Era tornato. Era tornato solo per lei. Nessuno era mai tornato per lei.

"Assassino e ladro di femmine", lo ricordano ancora così in paese.
Pure adesso che sono passati tanti anni.
Pure adesso che Franco il fornaio l'hanno rinchiuso per aver aperto la pancia con un coltellaccio anche alla moglie.

Pure adesso che Maria e lo Straniero vivono felici dall'altra parte del mare, con un figlio ormai grande, l'argento tra i capelli e l'amore ancora stretto tra le cosce.

Ha senso perché un social network non dà la pienezza di un blog.
Perché i 140 caratteri di twitter delle volte sono davvero troppo pochi.
Perché la comunicazione superficiale di facebook raramente porta un arricchimento degno di questo nome.
Perché solo in un blog ci si può veramente raccontare.

E ci sono persone che hanno davvero tanto da raccontare, tanto da dire, tanto da offrire, per il proprio bene e per quello degli altri.
Ed è per questo che Astrid scrive ed è per questo che vale la pena leggerla. Perché, come dice lei, tutta questa sofferenza non vada persa.

Due vite in una: il volto umano del disturbo bipolare. Buona lettura.
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