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Ci chiamano per un intervento.
"Una perdita d'acqua in via Gradoli 96, interno 11, secondo piano", dicono.
Io sono la prima ad entrare.

Dentro c'è di tutto.

(1978)
Sono stata a Bologna.
"Capirai che notiziona", starete dicendo voi. "E' un mese che vai avanti con questa storia!"
Embè? Questo è indice di quanto io poco viaggi e, soprattutto, di quanto più dovrei farlo. E voi non siete affatto carini a farmelo notare.

Ma ora vi prego di darmi retta, perché la cosa potrebbe farsi interessante.
Sono stata a Bologna.
Non ero mai stata a Bologna.
In realtà ho frequentato poco l'Emilia tutta.
Però ho una lunga tradizione di vacanze romagnole. A tal proposito vi potrei raccontare di quella volta che mi persi tra i mille ombrelloni tutti uguali di Rivazzurra, oppure del mio amore incondizionato per i passatelli, o ancora di quando, a sedici anni, venni avvicinata dall'aiuto bagnino che, trattenendo il fiato per rendere più scolpiti addominali e pettorali, mi chiese:
"Che leggi di bello? Un romanzo d'amore?"
"No, Apologia della Storia di Bloch"
"Ah"

Ma, ne converrete con me, se vi parlassi di tutto questo uscirei fuori tema e anche fuori strada.

Oggi voglio parlarvi del mio fine settimana a Bologna.
Ma non del fatto che a Bologna ci siano i portici, le librerie e le botteghe. Perché tutta questa roba ce l'abbiamo anche a Torino.
E neanche dello spettacolo teatrale di mia cugina. La quale è stata bravissima, mi ha reso molto orgogliosa, e ha confermato la mia certezza che nel sangue della nostra famiglia scorra talento puro, anzi purissimo, ad ettolitri.
E neppure del locale/bettola/antrodell'inferno in cui sono stata trascinata la prima sera. Luogo ameno grazie al quale ho capito che Stefano Benni sarà pure uno scrittore eccezionale ma, a vivere in una città con certi luoghi e certi personaggi, non serve mica tanta fantasia per inventarsi racconti assurdi e surreali.

Io oggi voglio parlarvi del Mambo.
No, non il ballo.
Il Mambo, il museo d'arte moderna di Bologna.
Ci sono finita quasi per caso, alla ricerca della collezione di Giorgio Morandi. Il pittore bolognese famoso soprattutto per le nature morte. L'uomo che trascorse gran parte della propria vita a dipingere chiuso nella sua stanzetta, come se tutto il talento racchiuso dentro di sé non avesse quasi bisogno di arricchirsi, confrontarsi e nutrirsi del mondo esterno. L'uomo mite e gentile che visse per rappresentare la luce, e la luce soltanto.

Prima di perdermi tra le numerose opere di Morandi sono però passata in mezzo alla collezione permanente del museo. E lì mi sono innamorata. Sono stata stregata. Mi sono commossa. Ed esaltata.

Tutto.
Mi è piaciuto tutto.
Ma, più di ogni altra cosa, mi ha rapita: "Sono stata io. Diario 1900 - 1999".
Un'opera di Daniela Comani.

Un'enorme tela dove sono descritti 366 momenti dello scorso secolo. Uno per ogni giorno dell'anno.
Un anno virtuale. Una lunga sequenza di eventi raccontata in prima persona, come se l'artista fosse stata testimone diretta di cento anni di storia. Vittima o carnefice. Spettatrice o protagonista. Individuo.
Cronaca. Politica. Arte. Spettacolo.
Daniela Comani scrive tutto. E legge tutto. Perché quest'opera, oltre ad essere guardata, può anche essere ascoltata. Attraverso la voce della stessa autrice che legge in ordine i 366 giorni.

L'arte contemporanea che diventa letteratura. Un racconto. Una vita.
Storia, arte, romanzo, emozione: tutto assieme.

Ne sono rimasta così colpita da decidere di portare avanti un progetto simile anche su questo blog.
Da domani comincerò il mio diario. Racconterò anch'io la mia storia. Quella del mio mondo e del mio tempo. 365 piccoli post. 365 momenti che potranno andare, in rigoroso disordine cronologico, dal 9 gennaio 1977 al 17 aprile 2014.

"Perché?", vi starete chiedendo.
Non saprei darvi una risposta. Forse solo perché ne sento il bisogno. Istintivo. Irrazionale. Genuino.

Non temete, miei più abitudinari lettori, questo progetto non interferirà con l'andamento del blog come lo avete conosciuto finora, ma lo accompagnerà e, spero, arricchirà.

Per oggi vi ho detto tutto.
Ci ritroviamo domani.
"ZAC", dissero le forbici tagliando i ponti.
Ed eccomi di nuovo qui con l'imperdibile rubrica dedicata ai piccoli tesori scovati Nella Rete.
Rubrica che, com'è nel mio inconfondibile stile, ripropongo in maniera casuale e disordinata, praticamente alla "membro di segugio".
Del resto, non vi aspetterete mica di trovare un appuntamento fisso e coerente su queste pagine?
Ma per chi mi avete presa?

Fatta questa dovuta premessa, passo alla ciccia, al ripieno, al cuore di questo post. Ossia: al protagonista scovato nel web.
Questa volta si tratta di Giuliano Dottori, un cantautore italiano, nato a Montreal.
Chitarrista e anche produttore, potete ascoltare la sua musica qui, qui e anche qui.
Ma pure qui.

Insomma, Giuliano è uno che la rete la usa e la sa usare, e quindi in questa rubrica ci sta a pennello.
E, il suddetto artista, da amante e fruitore del web, si è anche inventato una bella iniziativa per realizzare il suo prossimo video.
Come scrive lui stesso...


Prima di correre alla finestra per dare il vostro piccolo contributo a questa bella idea, fermatevi ancora un attimo qua ad ascoltare ciò che ho scelto per voi...




NdA: se avete iniziative, vostre o di chiunque altro, da segnalarmi scrivete pure a janecole@live.it
Lei finalmente cacciò fuori le lacrime.
Queste andarono a dormire sotto un ponte.
Domani partirò per visitare una città che ancora non conosco, e per andare a vedere uno spettacolo teatrale di cui vi ho già parlato.
La città è Bologna. Lo spettacolo è la versione riveduta e corretta di Romeo & Giulietta, in scena sabato alle 21, al teatro Centofiori, in via Gorky 16.


Per salutarvi e augurarvi, in anticipo, un buon week end vi lascio un racconto.
Un racconto che non è stato scelto a caso, ma ripescato tra i miei appunti proprio per l'occasione.
Si tratta della mia personale versione del prologo di una commedia famosissima.

Commedia padovana scritta dalle medesime mani che composero la tragedia dei due amanti veronesi.
Che vi devo dire? Al bardo gli garbava assai il Veneto!

Prologo
Quando Donna Lucrezia scoprì di portare in grembo una nuova vita gli occhi le si riempirono di lacrime, il viso di gioia e il cuore di speranza. Sognò una figlia dalla pelle candida e i lineamenti delicati, una creaturina docile da accudire e proteggere.

Quando il Cavalier Battista scoprì che presto sarebbe diventato padre il petto gli si riempì d'orgoglio, il sorriso di denti e la testa di progetti. Immaginò un figlio forte e vigoroso, un erede a cui trasmettere ricchezze e doveri, conoscenze e privilegi.

Ma, purtroppo, fu subito evidente che quella non sarebbe stata una gravidanza lieve.
Infatti, più Donna Lucrezia si gonfiava più l'umore d'Ella peggiorava.
Ogni giorno veniva torturata dalle voglie più strane: fragole con aringhe in salsa di soya, straccetti di Gnù con contorno di polenta nera, biscotti bagnati nella grappa e sbriciolati sopra un cosciotto di Caribù.
Ogni notte veniva tormentata dagli incubi più angosciosi: percepiva il calore soffocante delle fiamme dell'inferno, sentiva le urla disperate dei dannati, e tremava per lo stridere di mille unghie sulla lavagna.

Il povero Battista, che tanto amava la propria consorte, le rimase accanto soffrendo con lei, cercando di confortarla e di alleviarne il disagio. Assunse tre cuoche, e sperperò una fortuna per trovare in giro per il mondo gli astrusi ingredienti e sapori che la sua Madonna desiderava. Ed ogni notte, durante l'infinita attesa, le rimase vicino, vegliandola quando vegliava, o cullandola quando si ridestava in lacrime da uno dei numerosi incubi.

Entrambi i coniugi giunsero al momento del parto con profonde occhiaie, molto sonno arretrato, ed il principio di un esaurimento nervoso.
Eppure il peggio doveva ancora arrivare.

Caterina venne al mondo una notte senza luna, in cui il vento gelido s'infilava all'interno delle mura della villa, e una pioggia scrosciante spazzava il cortile.
Caterina iniziò la sua vita abbaiando come un cane rabbioso, con il viso rosso di collera ed i piccoli pugni stretti e pronti a colpire.

Quando Battista si avvicinò per osservarla, la piccolina tacque, aprì gli occhi ed osservò i genitori con lo sguardo profondo di un adulto, il cipiglio di un condottiero, ed un sorriso beffardo che non prometteva niente di buono.
Lucrezia ne fu talmente impressionata da venir meno. Il Cavalier Battista, uomo tutto d'un pezzo, finse noncuranza e prese a cullare nervosamente la strana creatura che il Signore, o Chi per esso, gli aveva mandato.

La piccola Caterina crebbe sana, forte, bella e prepotente. Regina e terrore di tutta la casa.
I suoi non erano i semplici capricci di una bimba ma gli ordini di un inflessibile generale.
I suoi non erano gli sbalzi d'umore di un intrattabile adolescente ma gli squilibri incontrollati di una sociopatica.

La povera Bianca, venuta al mondo pochi anni dopo la sorella, trascorse l'infanzia e la giovinezza tra paura e vessazioni, ridotta a schiava e vittima prediletta.
I servi lasciarono il palazzo a frotte. Tutti i precettori si licenziarono dopo la prima lezione.
Il prete svuotò l'acquasantiera cercando di chetare Caterina, ma neanche questo parve funzionare. La bambina, che in quell'occasione aveva solo 8 anni, bagnata come un pulcino, tentò di dar fuoco alla tonaca del parroco, urlando sconcezze che avrebbero fatto arrossire anche il più navigato dei marinai.

Caterina cresceva e la sua famiglia sperava che qualche pretendente se la portasse finalmente via. Lontano.
Ma neanche la sua indubbia bellezza e l'abbondante dote bastavano a far dimenticare l'animo da demonio.
Ogni corteggiamento si concludeva con feriti, o quasi.
Claudio, un signorotto di Verona, riportò solo qualche piccola bruciatura ed un grande spavento.
Astolfo, un lanciere di Venezia, perse due dita della mano sinistra e dieci anni di vita dalla paura.
Pancrazio, un mercante giunto addirittura dalla nebbiosa Mediolanum, se ne tornò di corsa a casa, lasciando dietro a sé la lunga chioma corvina e gran parte della propria dignità.

Caterina riuscì a far scappare tutti.
Tutti tranne Petruccio.

Perché, per domare un diavolo, ce ne vuole un altro, meno selvaggio ma più spietato.

To be continued...
Finalmente si decise a fare un passo avanti.
L'ultimo.

L'altro giorno, di punto in bianco, mi è tornato in mente il libro delle cornicette.
Voi ce l'avevate il libro delle cornicette?
La mia maestra di prima elementare, l'anziana Giannetta che venne poi sostituita dalla giovane Egle, ne possedeva diverse versioni. C'era quella delux, quella intermedia e quella per bambini particolarmente imbranati.
Pagine e pagine di cornicette da copiare sul proprio quaderno per dividere le lezioni dai compiti, l'italiano dalla matematica, le note dai bei voti.
Credo che, in realtà, la vera funzione di questi grafici orpelli fosse rendere noi giovani neoalfabetizzati più abili con penna e matita, meno impacciati nei movimenti, più disinvolti nell'approccio alla scrittura.
Insomma, le cornicette dei miei tempi erano la versione moderna e creativa delle "aste" delle generazioni a me precedenti.

Perché vi sto dicendo tutto questo?
Perché il ricordo delle cornicette e, soprattutto, dell'assurdo libro che ne custodiva al proprio interno millemilioni di differenti versioni, si è tirato dietro tutta una serie di memorie e riflessioni strettamente legate ai miei anni delle elementari.
Anni durante i quali si poteva tenere il mondo in ordine con l'uso di semplici disegni geometrici ad ornare una pagina.
O questo è un falso ricordo? Una ricostruzione faziosa del tempo che fu?
Forse, a guardar bene, ad osservare più da vicino, si riescono a vedere anche le scalfiture, le ammaccature dell'imperfetto tempo andato.
Forse anche quelli erano anni incasinati, anni di delusioni e traumi, anni di rapporti appassionati e burrascosi.

Ve la ricordate l'amicizia ai tempi delle cornicette?
Io sì.
Mi ricordo soprattutto le mie tre migliori amiche. Le mie tre compagne di classe preferite.
Noi ci muovevamo sempre in quattro: Rita, Paola, Silvia ed io.

Il padre di Rita lavorava in banca. La madre insegnava inglese. Nelle dinamiche interne della mia proletarissima scuola elementare, ciò era più che sufficiente per darle un ruolo privilegiato, per metterla sopra un piccolo invisibile gradino.
Il tutto era amplificato dalla sua naturale e pacata eleganza, dal suo principesco atteggiamento, dalla sua connaturata aristocratica sobrietà.
Sobrietà che scricchiolò solo per pochi secondi durante uno dei primi giorni di scuola. Quando Rita si presentò in classe con un volantino di un negozio di giocattoli. E io mi avvicinai, come gli altri, per dare un'occhiata.
"È inutile che guardi. I tuoi genitori fanno gli operai: non te le puoi permettere queste cose", disse lei, perdendo il suo proverbiale aplomb ed esibendo una sorprendente acidità.
"I miei genitori lavorano tanto e mi vogliono bene. Quello che puoi avere tu lo posso avere pure io!", risposi, reprimendo faticosamente il desiderio di attaccarle una caccola tra i capelli, e dimostrando tutto il mio amore per le dichiarazioni enfatiche da colonna sonora drammatica.
Questo semplice scambio bastò a farmi guadagnare il ruolo di sua parigrado. I giocattoli non c'entravano niente, era questione di rispetto, dato e dovuto.
A lei piaceva il fatto che io non facessi alcuno sforzo per guadagnarmi il suo affetto.
A me piaceva il fatto che, dietro quella laccatissima maschera, fossero presenti difetti e debolezze. E che solo io conoscessi il suo lato oscuro, più oscuro di tutti, la sua notevole capacità nel fare rutti a comando.

Sempre un passo dietro alla reginetta della classe, a tenerle servilmente il nobile strascico, c'era Paola.
Paola era amica mia solo per sbaglio, per convenzione, per noiosa abitudine.
Lei ed io non avevamo niente in comune, ma ci toccava condividere tutto: la strada per andare a scuola, il cortile, e persino le nostre due migliori amiche.
Io ho sempre pensato che l'antipatia fosse evidente e reciproca. Ma, in realtà, una volta finite le elementari lei cercò, a differenza mia, di mantenere i contatti. Atteggiamento inspiegabile, se non partendo dal presupposto che Paola un po' di bene me ne volesse sul serio.
A tal proposito, fu indimenticabile una sua telefonata fattami in terza media. Io ero di corsa e così, semplicemente, finsi che avesse sbagliato numero.
E quando, pochi giorni dopo, lei mi richiamò per raccontarmi il curioso episodio, e aggiungere "Strano, però, al telefono sembravi proprio tu", io negai. Negai con tutta la sfacciataggine di cui ero e di cui sono capace. Negai. Non per proteggere i suoi sentimenti ma il santino di "buona" che faticosamente mi ero autocostruita. Santino che ancora porto con me. Perché peggio delle prigioni che ci erigono gli altri, esistono solo quelle che ci erigiamo da soli.
Buona? Ma buona de che? Posso essere stronza come gli altri. Anzi, no, lo posso essere in maniera molto più creativa ed esuberante della media. E ciò mi riempie d'orgoglio.
Per la cronaca: sono convinta che lei non mi credette neanche per un secondo.

L'ultima del gruppo era Silvia. La mia anima gemella.
Nella foto di classe Rita e Paola sono sedute, eleganti come due damine e si tengono per mano.
Silvia ed io siamo in piedi, dietro di loro, ognuna con il braccio intorno alla spalla dell'altra.
Le prime due sorridono compite.
Noi ridiamo sguaiate.
Loro sembrano appena arrivate da una festa di famiglia.
Noi da un pomeriggio ai giardinetti.

Le cornicette mi hanno portato a ripensare ad Silvia e alla nostra amicizia. Ho ripensato che pure in quel periodo di cartoni animati, collezione dei puffi e maglioncini rosa i rapporti potevano essere complicati. Anche se ci si provava, delle volte era difficile rispettare i quadretti del foglio, il tratto diveniva incerto, la matita sbavava, le mani sudaticce si attaccavano alla carta.
Silvia era la mia migliore amica. La più migliore di tutte. Meglio di Rita. Un milione di volte meglio di Paola. Eppure litigavamo come cane e gatto. Non ricordo minimamente quali fossero le motivazioni. Ricordo solo che ci urlavamo contro e ci facevamo del male. Passavamo dall'affetto incondizionato alle ripicche più ridicole.
Eppure eccoci là nella foto, abbracciate, testa riccia contro testa riccia, sorridenti. E non solo perché quello era evidentemente un momento di serena tregua, ma perché eravamo amiche sul serio. Non c'era bisogno di troppe spiegazioni. Ci volevamo bene. Nella nostra maniera chiassosa, sconclusionata ma sincera.

Ora che sono passati mille anni le cornicette non le faccio più. Ma litigo ancora, alternando al dolore dello scontro la gioia della riappacificazione.
Silvia non la frequento più, ma ho trovato un suo degno sostituto.
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