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Dai stiamo sul pezzo.
Dai parliamo di Maturità.
No, non di quella iniziata oggi che, sinceramente, ma chi se ne frega!
Ma di quella che ho fatto io, millemilioni di anni fa.

L'esame era del vecchio, vecchissimo tipo.
C'era il tema. Poi l'altro scritto, diverso a seconda dell'indirizzo di studi. E, infine, l'orale: due materie. Ufficialmente una la sceglievi tu e l'altra la commissione. In realtà, a parte follie rare e improvvise di docenti accecati dal potere, le sceglievi tu entrambe.

I professori erano tutti esterni. Tutti tranne uno. Il membro interno, appunto. Il membro interno aveva il compito di infonderti fiducia, bisbigliare suggerimenti durante gli scritti e, nel caso specifico della mia classe, preparare torte per addolcire la commissione.

Del mio esame di maturità ricordo soprattutto il compito di matematica, che venne accolto da scene d'isteria, pianti a dirotto, e melodrammi casalinghi. Io, a differenza di alcuni miei compagni, scelsi di conservare la dignità: non feci scenate e non piansi. A scuola.
A casa, invece, mi esibii in una riuscitissima imitazione di Mario Merola, solo un poco più sopra le righe rispetto all'originale.

Del mio esame di maturità ricordo anche la preparazione per l'orale. Il "pasticcere" membro interno, per risollevare i voti abbattuti da derivate e integrali, strinse un patto scellerato con la commissione. "Chi vuole qualche punto di bonus sul giudizio finale, lasci ai professori la scelta della seconda materia orale. Gli interessati ne propongano due, noi comunicheremo la nostra decisione solo il giorno prima" ci venne spiegato.

Accettai la sfida.
Portai storia come prima materia, poi fisica e italiano.
Il programma di fisica poteva essere scritto su un tovagliolino da bar. Quello d'italiano sulla Treccani, edizione extra large.
La commissione scelse la Treccani.
Feci l'ultimo ripasso tutto in una notte. Arrivai all'orale senza aver dormito. Un fascio di nervi con occhiaie da panda. Passai per prima. Andò bene. Andò molto bene.
Dormii.

La maturità è un esame ricco di pathos.
La maturità è materiale per racconti, incubi e post su blog.
La maturità, per il resto, non serve a un cazzo.
Piccoli biglietti in giro per la città.
Parole. Racconti.
Scritti lo scorso week end. Tenuti in borsa per giorni.
Ieri, complice una giornata un po' storta, mi sono finalmente decisa.
L'ho fatto.

Nove Giugno Duemilaequindici.
Approfitto del passaggio di un gruppo di cabarettisti amici miei: vado allo Zelig!
No, non la trasmissione televisiva. Il locale originale. Dove tutto ebbe inizio e, anche lontano dalle telecamere, continua.

Un po' blogger d'assalto, un po' groupie, un po' Yoko Ono dei poveracci, migro verso Milano, prendo pioggia a secchiate, curioso in un mondo che non conosco.

Già il viaggio è una lezione di vita: due ore chiusa in macchina a sentir discutere di cambi in scena, cappelli, giacche, e corse su e giù per il palco. Che bello dover fare esclusivamente la spettatrice. A me viene l'ansia da prestazione solo a sentirli certi discorsi. In una situazione del genere fuggirei ancor prima dell'inizio dello spettacolo. Per poi essere ritrovata con la ciucca triste da "Il Lurido" o ancora incastrata nella microfinestra del bagno. Neanche meritevole di una fuga dignitosa. Ovviamente.

A proposito di bagno, appena arrivata nel locale corro ad usarne uno. Poi, rasserenata, comincio a guardarmi in giro. A dire il vero questo famoso Zelig non mi sembra un granché. L'ingresso è così triste: dal corridoio si passa direttamente ai bagni, e poi ai camerini. I camerini? Che ci faccio nei camerini? Ho usato l'entrata secondaria, quella per gli artisti. Mi sembrava strano. Va bene il low profile del cabaret underground, ma l'ingresso dai cessi era davvero troppo!

Esco. Ci riprovo. Porta principale. Quella per il pubblico. Decisamente meglio. Foto di comici famosi, luci, specchi, brillantini. Un bel posto. Una bella energia. Un po' di emozione, persino per me che non c'entro niente con tutto l'ambaradan.

Armata di smartphone, e in modalità molto social, faccio foto brutte e un poco tutte uguali.
Ceno con il panino "Teresa Mannino". E poi prendo posto sulle tribune. Tempo trenta secondi ed ho una piaga da decubito. La prossima volta mi porto una ciambella come ogni ottuagenaria che si rispetti.

Si comincia alle 21:30. Si finisce all'1. Nel mezzo un intervallo di 10 minuti.
A presentare ci sono due terzi dei Boiler: Federico Basso e Davide Paniate.
Loro sono bravi. Ma bravi bravi! Presentano, fanno ridere, fanno da spalla, risollevano i tempi morti. A fine serata voglio portarmeli a casa e costringerli a diventare i miei migliori amici. Tipo "Misery non deve morire". Ma senza violenza, sequestro di persona, e gambe rotte. Per quanto riguarda lo squilibrio mentale: ci devo ancora lavorare su.

Nel cast ci sono comici da mezza Italia. Tantissimi. Esordienti o meno, giovani o meno, talentuosi o meno. C'è chi sembra nato per stare sul palco, c'è chi dovrebbe fare altro nella vita, c'è chi è in serata, c'è chi no, c'è chi è originale, c'è chi neanche per sogno.
E, come sempre, ci sono pochissime donne. E io, come sempre, mi lancio nella mia personale crociata: per quale stram#### di ragione buona parte delle donne che fanno comicità devono sempre e comunque parlare di uomini? E' roba trita e ritrita. Oltre che un mezzo suicidio artistico. Perché, a far ridere con battute già sentite mille volte, bisogna essere delle tigri da palcoscenico, dei geni della scrittura, o premunirsi di portare tra il pubblico tutti gli invitati della propria prima comunione.

Comunque, in molti mi hanno divertito. Qualcuno davvero tanto.  Per correttezza non dico niente sui miei amici torinesi. Che sono tutti bravi e belli, specialmente Andrea Bruno. Ma ci tengo a fare i miei più spassionati complimenti a un duo proveniente da Roma (*). Non so come si chiami il duo. Non so come si chiamino loro all'anagrafe. Non so niente. Ma sono molto bravi. In particolare uno dei due passa in scioltezza da un personaggio all'altro, con velocità e padronanza invidiabili. Se mai, per caso, doveste leggermi e riconoscervi, ve lo ripeto: bravi!
Bravi loro e anche altri.

Ma non tutti. Proprio no.

(*) Il caso e i social mi hanno permesso di rintracciare il duo romano. Sono Spadoni&Paniccia e questa è la loro pagina facebook.
E, niente, io avrei deciso di fare una cosa.
Sono mesi che ci penso, forse quasi un anno.
Niente di che, una cosa piccolina.

Uno di quei gesti d'artista col gonnellone e i fiori tra i capelli. Anche se io non sono così. Niente gonnellone e niente fiori.

Però questa cosa mi piacerebbe proprio farla. Mi piacerebbe scrivere i miei racconti, quelli più piccini, su dei foglietti di carta e poi lasciarli in giro per la città. Senza nessuno scopo. Così, solo per il gusto di farlo.

Solo per il gusto d'immaginare l'incontro casuale e involontario tra uno sconosciuto e le mie parole. Qualcuno che le trovi, le legga, e poi magari sorrida. O magari no.

Io, a fare questa cosa qua, mi vergogno come una ladra. Ma non importa, la voglio fare comunque che, se fosse per la vergogna, nella vita non avrei mai fatto nulla.
Venerdì sera.
Rossetto rosso d'ordinanza e scaramantico selfie pre-serata.
L'autoscatto beneaugurante funziona: trovo parcheggio in un microsecondo.

Arrivo alla casa del quartiere dove artisti e tecnici provano. Incontro gli altri giudici, ci chiacchiero e, intanto, bevo vino rosso e mangio fusilli al dente: è l'aperitivo bellezza!

Inizia la serata finale.
I Boys e Natalia omaggiano oltraggiano la Carrà.
Donna Antea si dà coraggio a forza di cordiali.

Sul palco salgono Alessandra Donati e i Proprietà Commutativa.
Lei è più centrata della prima volta. Più sicura e con meno sbavature. Il pezzo, leggermente modificato, ne esce molto migliorato. Emoziona. Brava!
Loro spingono sull'acceleratore, osano. Sfiorano l'eccesso con l'eleganza che li contraddistingue. Sono bravi. Dannatamente bravi. E intelligenti. Cavoli, ormai mi sono quasi affezionata persino al loro inspiegabile cowboy!

Al momento della votazione sono in seria difficoltà. Per un attimo penso di dare un parimerito e affidare vigliaccamente la questione agli altri. Ma alla fine scelgo.
Dopo 30 secondi però cambio idea. Poi di nuovo dopo altri trenta. Così fino alla proclamazione. Uno o l'altro, boh! Diversi e validi, come si fa a decidere?

E, infatti, per una volta i numeri si accocchiano in karmica armonia. I voti di giuria e pubblico s'incastrano perfettamente. E il risultato è un sorprendente pareggio!
Vincono la terza edizione di facce da Palco: Alessandra Donati e i Proprietà Commutativa!

La competizione è finita. Le mie responsabilità da giurata anche. E' il momento di far festa, di bere mojito, di abbracciare vecchi e nuovi amici, di salutare i Bella Domanda che sono venuti ad esibirsi, fare ridere ed arricchire la serata.
E' il momento di chiudere quest'esperienza, ma è solo un arrivederci. Si torna l'anno prossimo con Facce da Palco, e già in autunno con altre imperdibili avventure!

ps: grazie a tutti, tutti, tutti. Ma soprattutto a Nat,  folle ed affascinante, Elena, compagna di telefonate tra freelance, e Francesca, la MIA make up artist!
Ho attivato i miei contatti su facebook, ho pubblicato il volantino in bacheca, ho mandato un poco di email. Bene, ho utilizzato tutti i miei canali di comunicazione. Perfetto.

Ma bene de che? Ma perfetto cosa? E il blog? Mi sono dimenticata del blog!

L'ho detto a cani e porci, tranne che ai miei lettori adorati che, legittimamente, ora avrebbero il sacrosanto diritto di sputacchiarmi in pieno viso.

La prossima settimana comincia il mio laboratorio di scrittura via Skype. Ebbene sì! Mi sono inventata anche questa.

Siete interessati?
Commentate, scrivete, fatemi sapere.
C'è ancora posto ma il tempo stringe!

E non fatemi quella faccia lì. Non prendete la dimenticanza come un affronto personale. Lo sapete, sono una donna sbadata, confusa e confusionaria. Ma voi mi amate nonostante tutto, no?
No?
Ah, ecco.

Non bevo mai tè a colazione. Quasi mai. Di solito preferisco il cappuccino.
Bevo tè solo quando ho mal di gola, altrimenti il latte mi s'incastra vischioso tra le tonsille grosse come palle da golf.

Non bevo mai tè a colazione, ma stamattina sì. Avevo finito il latte.

E poi c'era il sole. E mi è sembrata come una di quelle mattine d'estate nella casa in campagna.
Ci passavo le ferie quand'ero piccina. Ero la più piccola e mi toccava dormire in un lettino nella camera dei miei, mentre i cugini grandi si dividevano le camere al piano superiore. Un'invidia.

Però la mattina era bello svegliarsi in quel lettino.
I miei erano già in piedi da ore. Io mi stiracchiavo, con il sole che filtrava sottile dalle imposte di legno e i rumori che arrivavano da fuori.
C'erano le donne che spignattavano. Loro spignattavano sempre, a qualsiasi ora.
C'erano gli uomini che legavano rami e tagliavano erba. Mio padre si lamentava "Sono venuto via dal paese per non fare più il contadino, e ora mi tocca farlo in vacanza!"
C'era il nonno che partiva per una delle sue passeggiate infinite. "Ci vediamo a pranzo", annunciava già per strada. "Non fare tardi France'", si raccomandava la nonna.

Io mi alzavo e scendevo le scale con le mie gambette secche che spuntavano dal pigiama estivo. Maglietta e pantaloncini. Ogni anno mia madre me ne comprava uno nuovo. Con la frutta, con i fiori. Con i pupazzi no. "Mia figlia non li vuole con i pupazzi, dice che sono da bambina", spiegava alle commesse, mentre faceva compere per la sua esigente figlia minore.

Scendevo con il mio pigiama da adulta elegantona di 8 anni, entravo in cucina e aspettavo la colazione. In città non facevo mai colazione col tè, ma in campagna sì, perché me lo preparava mia zia Concetta. E mia zia Concetta ha sempre avuto il dono di rendere tutto più buono. Più nutella sul pane e nutella, tanto zucchero nel tè amaro.

E così cominciavo la mia giornata, facendo la zuppetta di fette biscottate in una tazza di tè con un imbarazzante numero di cucchiaini di zucchero. E le giornate che cominciavano così erano sempre belle.

Quindi stamattina ho messo un imbarazzante numero di cucchiaini di zucchero nel tè e, già che c'ero, ci ho fatto la zuppetta con la crostata di mammaCole. Che, nel frattempo, anche lei ha imparato a rendere le cose più buone.

Non è stata una giornata senza pensieri come quelle di una volta. Ma è stata comunque bella. Potere del sole che filtra tra le imposte, del tè a colazione, e dei ricordi che coccolano il presente.

Le scale sono sporche e buie. S'intuisce una luce più in basso. La si segue.
Si arriva in una larga stanza sotterranea. Vecchie mattonelle in bilico sulla parete, un grande lavandino, una sedia.
Ci si accomoda. Le luci svelano impietose segni e rughe.
Parte la registrazione. Monologhi. Di rabbia, esaltazione, dramma.
Sul viso e le palpebre scorrono le reazioni alle parole pesanti come pietre.
Alla fine si aprono gli occhi. Un secondo per adeguarsi alla luce, e poi lo scatto a fermare le tracce dell'esperienza.

Questo è stato (S)cript. Performance fotografica teatrale ideata e realizzata da Sergio Sasso nell'ambito del Fringe Festival di Torino. A questa seguirà, probabilmente, una mostra. Vi terrò informati. Ne varrà la pena.
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