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Pedro la vide per la prima volta nel refettorio. 
La luce che proveniva dai finestroni alle sue spalle la faceva sembrare un angelo. Un bellissimo angelo nobile e fiero. 

Lei aveva grandi occhi neri con ciglia di seta, piccole labbra rosa perfettamente disegnate e un cipiglio da generalessa. Lui rimase stregato e, dalla sorpresa di trovarsi al cospetto di un essere tanto perfetto, aprì la bocca e il pollice umido gli scivolò via schioccando come il tappo di un fiasco di vino. 

Quel giorno Pedro divenne un uomo. Perché solo gli uomini conoscono il vero amore e la cieca devozione. Aveva appena compiuto cinque anni. 

In realtà nessuno all’Istituto della Maria delle Grazie di Rio de Janeiro era immune al fascino di Aninha. Tutti i ragazzini la seguivano da vicino o veneravano da lontano. Spinti dalla passione amorosa i maschi e dal desiderio di emulazione le femmine. Persino le suore, che pur ne conoscevano l’allergia alle regole e la propensione alla ribellione, ne ammiravano l’animo appassionato. Alcune di loro, addirittura, sognavano per lei un futuro da Madre Badessa. Sognavano di riuscire a convogliare tutta quell’energia verso la fede, verso il Signore e soprattutto verso una strepitosa carriera ecclesiastica che avrebbe portato grande lustro a tutta la scuola. 
Una creatura così era destinata a fare cose grandi ma nessuno di loro, tranne Pedro, aveva intuito appieno quanto grandi potessero essere. 

Aninha aveva sette anni ed era a capo di un gruppo di fedelissimi, con i capelli a scodella e le ginocchia sbucciate, che rispondevano ai suoi ordini con cieca obbedienza e religiosa sollecitudine. Ogni giorno si cimentavano in nuove e perigliose avventure. Ma ciò che amavano di più era sfidare le autorità, con particolare accanimento verso il cuoco, “O Porco”, che li affamava facendo la cresta sulla spesa e riempiendo la zuppa di carne guasta, e Don José, “O Porco Grande”, il frate confessore che non li perdonava mai e, fra una penitenza e un’Ave Maria, li condannava sempre tutti all’inferno. 
Aninha non sopportava certe prepotenze e, tra dispetti e atti dimostrativi, combatteva la sua battaglia che era la battaglia di tutti.  Lei era una figlia del popolo col portamento da Regina. Una Regina guerriera. 

Pedro, al contrario, non era dotato di carisma e neanche di particolare coraggio. Le sue caratteristiche principali erano i pidocchi abbarbicati tra i ricci, la candela al naso, e un cuore grande e pieno d’amore puro. 

Lui guardava la sua Imperatrice da lontano, ammirandone la fiera bellezza e l’animo indomito, la schiena dritta e la parlantina incessante. Sognava di poter diventare il suo cavaliere. Il suo fedele scudiero. Il suo braccio destro. Tutto sommato si sarebbe persino accontentato di prendere il posto di Claudio. Quel ciccione, borioso lacchè che Aninha tollerava solo perché la sua altezza sopra la media e il fisico da giovane toro erano armi necessarie alla lotta. 

Pedro sognava ma non si faceva illusioni, sapeva che, agli occhi di lei, non sarebbe mai stato nient’altro che uno dei tanti piccoli orfani. Uno della folta massa di ragazzetti di scarto, che tra le quattro mura del collegio non ci stavano solo per studiare come lei, ma ci rimanevano perché non avevano nessun altro posto dove andare. Senza famiglia. Senza casa. Senza futuro. 
Pedro era rassegnato a essere uno qualunque, distinguibile dagli altri solo per lo straccetto che portava sempre in mano. Uno straccetto vecchio e puzzolente ma che per lui profumava di mare, sole e mamma. 

Una notte senza luna Aninha e i suoi compagni scivolarono furtivi fuori dai propri letti, attraversarono silenziosi i corridoi dai soffitti alti e i finestroni immensi, e raggiunsero il quadro della grande Dama. Una tela che a loro pareva enorme e terribile. Il ritratto della moglie del Senhor Pablo Soldon che un secolo prima, all’inizio del ’700, aveva speso parte del proprio immenso patrimonio per fondare l’Istituto, per dare una casa e una scuola ai piccoli orfani e ai figli delle famiglie più semplici e povere della città. 
In questo modo aveva regalato speranza e futuro a tanti, e soprattutto aveva dato una casa a tutti i bastardelli che egli stesso aveva seminato in giro. Aveva così cercato di pagarsi con moneta sonante il perdono dei propri peccati e un posto in Paradiso. 

La Dama guardava severa dall’alto, ornata di gioielli e belletto, con il naso lungo lungo e le sopracciglia folte e nere come ali di corvo. Tutti i bambini della casa erano terrorizzati dal suo sguardo severo e passavano di corsa sotto il quadro senza neanche avere il coraggio di alzare la testa. Le suore invece si fermavano sempre a fare un inchino, il segno della croce e pregare come davanti a una santa. 

Aninha aveva progettato a lungo l’impresa. Lo sfregio. La liberazione dal giogo della tiranna che con i suoi occhi maligni regnava incontrastata su tutti loro e sui loro incubi. 

Pedro aveva sentito i sussurri, aveva visto le ombre e aveva riconosciuto l’inconfondibile profumo di biscotti, zucchero e terra bagnata dell’amata. Stretto tra le mani il suo straccetto per farsi coraggio, si era incamminato a piedi nudi lungo il corridoio, seguendo silenzioso e invisibile il gruppo dei grandi. Quando furono tutti davanti al quadro si fece strada tra gli altri fino a raggiungere la prima fila, proprio nel momento in cui la condottiera stava sussurrando con voce ferma: “La nostra è una lotta per la libertà. Un piccolo passo sulla strada verso un mondo più giusto”. Tutte le teste a scodella annuirono e anche la capoccia ricciuta di Pedro le imitò. “Chi di noi lo farà?”, chiese Claudio. La Regina si guardò in giro. 

Ognuno di loro cercava di darsi il giusto contegno. Chi si sistemava i capelli, chi tirava su col naso, chi si grattava furtivamente il sedere. Chi, come Pedro, tratteneva il respiro e si teneva sulle punte dei piedi, cercando di sembrare un poco più alto. 

“Lo farà lui”, disse Aninha seria, allungando il pugno chiuso verso Pedro. I loro occhi s’incrociarono, i ginocchi di lui tremarono, e la mano di lei si aprì a mostrare un pezzetto di carbone. Lui ricevette grato il dono della propria ragion d’essere. Poi, ripresosi dall’emozione, si chiese con orgoglio quale fosse il grande compito che gli era stato affidato. Quale fosse l’impresa che finalmente l’avrebbe messo in luce e gli avrebbe dato la possibilità di dimostrare la propria devozione. Cercando una risposta guardò il pezzo di carbone e poi guardò Aninha. Guardò Aninha e poi guardò gli altri ragazzi. Guardò gli altri ragazzi e poi riguardò il carbone. 

“Devi disegnare i baffi alla Dama”, lo informò Claudio. 
Pedro si stupì, ebbe un attimo d’esitazione ma poi guardò di nuovo Aninha. Lei gli fece un semplice cenno del capo e il giovane cuore della testa ricciuta divenne ancora più grande e colmo d’amore. Fu in quell’istante che l’orfano con la pezzetta capì che sarebbe stato schiavo del suo sentimento per sempre. Si rassegnò al proprio destino e non se ne dispiacque. Decise che avrebbe fatto qualsiasi cosa per la sua amata, anche sfregiare il viso della Dama, anche condannarsi alla dannazione eterna, anche assicurarsi l’esilio perenne. Lui sapeva benissimo che un’azione così non sarebbe mai passata impunita e che le suore avrebbero indagato, annusato, domandato fino a trovare la verità. 

Pedro salì sulle spalle di Claudio e allungò la mano armata di carbone con la consapevolezza di segnare così la propria condanna. Del resto era sempre stato un bambino sfortunato, nei suoi lunghi cinque anni di vita aveva collezionato una serie di disgrazie e patimenti che neanche Gesù Cristo in croce. Il piccolo martire sapeva che non sarebbe riuscito a farla franca ma s’immolò comunque felice sull’altare del proprio amore non corrisposto. Appoggiò il carbone sulla tela. Prima un ricciolo a destra. Poi un ricciolo a sinistra. La Dama divenne in un secondo la Dama Baffuta. E tutti coloro che assistettero alla metamorfosi giurarono che la donna ne aveva guadagnato molto in bellezza e simpatia. 

Pedro aveva appena rimesso i piedi a terra quando, dal fondo del corridoio, apparve una flebile luce: “Chi è là? Cosa state facendo?” 
E decine di piccole ombre nella notte ritornarono nei loro letti veloci come ne erano uscite. 

Quando le suore si riunirono sotto la tela della Dama non trovarono niente e nessuno. Niente tranne una pezzetta lurida. La pezzetta di uno dei piccoli. La pezzetta di quel sorcetto coi capelli crespi e l’aria spaurita. La pezzetta che la madre, una ragazza sciocca e leggera al servizio di una famiglia di ricchi e boriosi mercanti di città, gli aveva lasciato nella cesta come unico regalo. 

Le suore sorrisero compiaciute. Avevano trovato il loro colpevole. 

Pedro venne trascinato di peso fuori dal letto e la notte stessa spedito alla Casa di Frate Eustacchio dai Piedi Puzzolenti, l’Animo Pesante e il Sedere Tonante. Istituto dall’oscura reputazione dove venivano rinchiusi i ragazzi difficili, i casi irrecuperabili o semplicemente i bimbetti molto sfortunati. 

La mattina seguente, quando Aninha e gli altri si svegliarono, trovarono la Dama nuovamente privata dei baffi che tanto le donavano. Pochi di loro si accorsero che insieme alle appendici pelose era scomparso anche il loro giovane autore. Nessuno se ne preoccupò. 

***

Undici anni dopo, al Porto Vecchio si stava radunando un folto gruppo di giovani pronti a seguire il più grande eroe delle Americhe. L’uomo dal pelo fulvo e il naso dritto. Lo straniero che voleva salvare il popolo brasiliano dal giogo imperiale. 

I ragazzi, provenienti dalle città e dalle campagne, aspettavano ore in fila per farsi esaminare, scegliere, e poter infine entrare a far parte del gruppo dei combattenti rivoluzionari. Uno alla volta si presentavano davanti a quello sguardo acuto che sembrava sempre puntare verso l’infinito. Loro si proponevano speranzosi e l’Eroe decideva se fossero degni della lotta, e quale sarebbe stato il loro compito. 

Accanto a Colui che arrivava dall’altra parte dell’Oceano c’era sempre una donna. La sua donna. Un bellissimo angelo. Una figlia del popolo nobile e fiera, dai grandi occhi neri con ciglia di seta, piccole labbra rosa perfettamente disegnate e un cipiglio da generalessa. 

Quando fu il suo turno Pedro si fece avanti, mise il petto in fuori e spostò il peso sulle punte dei piedi per sembrare almeno un poco più alto. Era rimasto piccolo e magro, il cuore gli si era indurito come succede a tutti diventando adulti, ma la devozione verso la sua Imperatrice non era stata scalfita. Era andato alla ricerca dell’Italiano coraggioso con l’unico scopo di mettersi nuovamente al servizio dell’amata Aninha, che ora tutti chiamavano Anita. Forse questa volta sarebbe riuscito finalmente a non essere più uno dei tanti, a farsi ricordare e apprezzare da lei. 

“Sei un poco gracilino”, disse il senhor Garibaldi guardandolo dubbioso. 
“Sono piccolo ma resistente”, rispose lui, tendendo il più possibile il collo verso l’alto per guadagnare ancora qualche centimetro. 

Gli occhi profondi del più anziano fissarono severi quelli del giovane, cercando di comprendere se sarebbe stato davvero in grado di combattere. Gli occhi del più giovane non si abbassarono ma restarono seri e fieri. Nel bel mezzo di questo scontro di volontà Anita ebbe un sussulto, “È lui!”, urlò sorpresa. 

I due uomini si voltarono a guardarla stupiti. “È lui: l’eroe di cui ti ho tanto parlato”, continuò la giovane donna, “il bambino che sfidò la tirannia. Colui che trasformò la Dama nella Dama Baffuta. Il cuore generoso che si sacrificò per tutti noi. Raramente ho visto tanta risolutezza nello sguardo di qualcuno. A soli cinque anni era più coraggioso di molti degli uomini adulti che ho conosciuto nella mia vita”. 
Poi infilò la mano in una borsetta che teneva legata ai fianchi e vi tirò fuori uno straccetto. “Sono più di dieci anni che aspetto di ridarlo al legittimo proprietario. L’ho conservato per te”, disse la nobile Regina inchinandosi di fronte al suo Eroe e porgendogli il pegno della di lei devozione. 

FINE


 *Ogni riferimento a fatti o persone realmente esistiti non è affatto casuale ma neanche storicamente preciso.*

Torna a grande richiesta (non è vero ma ho sempre sognato di dirlo) la rubrica Pancrazia Consiglia, cose belle da vedere, fare, leggere, scrivere online e non solo. 

Per questo Marzo inoltrato e dai foschi auspici, ho selezionato una serie di suggerimenti per svagare la mente, creare, scrivere e leggere.

Iniziamo proprio con la lettura e, mentre là fuori tutti parlano di Harry & Meghan – ma fatemi il piacere, #TeamCambridge tutta la vita! –, io voglio sorprendervi con la Reading Room, un profilo Instagram dedicato alla lettura, tutto in inglese e tutto ad opera di Camilla Parker Bowles. Sì, proprio lei.
https://www.instagram.com/duchessofcornwallsreadingroom/?hl=it

Passiamo dalla lettura alla scrittura. Se sieti orfani del mio Laboratorio Condiviso, potreste appassionarvi al Forum "Ultima pagina", fratello minore del famosissimo Writer's Dream. Uno spazio dove si parla di editoria, casa editrici ed agenzie, ma dove si trovano anche mille spunti, esercizi, idee per scrivere. Questo il link alla Palestra Creativa.
https://ultimapagina.net/forum/forum/52-palestra-creativa/

E dopo aver letto e scritto, non resta che dedicarci all'ascolto.
A questo link trovate Tutte le Radio del Mondo, il sogno per ogni appassionato, una tentazione irresistibile per ogni curioso. Da Detroit a Cinisello Balsamo, da Tokyo a Mumbai, da Sidney a Città del Capo, contro la globalizzazione a favore della scoperta!
http://radio.garden/visit/turin/6PyjGw08

Infine, com'è tradizione, dedico poche righe per pubblicizzare anche quello che faccio io, nello specifico, per chi non lo sapesse, se lo fosse perso, o continuasse volontariamente ad ignorarlo, sappiate che ho pubblicato il mio primo podcast. Mio dall'inizio alla fine. Nel senso che, in passato, ho fatto e condiviso anche su queste pagine splendidi podcast da copy, ottimi progetti a cui ho prestato le parole, la scrittura. Questo invece è tutto mio: l'idea, la voce, il montaggio, la parte tecnica. Insomma, non posso che incolpare me stessa. Per ora è uscita solo la puntata di febbraio ma quella di marzo è già in lavorazione... quanto meno nella mia testa. 
Questa serie s'intitola L'Ascoltarice, ed è dedicata ai podcast e agli audiolibri altrui, mia ultima folle passione. Podcast e audiolibri che ascolto, ho ascoltato, amato e ora consiglio.
https://www.spreaker.com/episode/43524126

E voi? Avete qualcosa da consigliarmi?
Lampioni innamorati (foto di Vallesilvia17)

In occasione di San Valentino (sì, qualche giorno fa) per la mia rubrica su TorinOggi (Storie sotto la Mole) ho scritto un racconto dedicato a un coppia torinese. 

Una coppia come tante, potrebbero essere i nostri genitori o anche i nostri nonni, che hanno percorso la vita e la città tenendosi per mano e facendo delle gran passeggiate.

Buona lettura!

Luisa e Marco s'incontrarono per la prima volta a scuola. La scuola elementare Federico Sclopis in via del Carmine 27. Non erano nella stessa classe perché allora maschi e femmine stavano ancora divisi. 

Lei aveva solo sette anni quando una compagna dispettosa le strappò il nastro dai capelli. Lui ne aveva 9 e, per non farla tornare a casa in lacrime, rincorse la ladruncola per tutta piazza Statuto e alla fine recuperò il mal tolto. Luisa lo ringraziò disegnando un fiore sulla polvere della strada. 

Quando la scuola venne bombardata, entrambi dovettero interrompere gli studi. Marco li riprese poco dopo. Luisa, invece, rimase a casa rassettare e cucire con la madre. 

Marco amava la geografia. "Quando ci sposiamo ti porto a Parigi" le disse quando andarono per la prima volta a passeggiare al parco del Valentino.

Continua...

Lo volevo fare da una vita e finalmente eccolo qua: il mio primo podcast.

Tutto mio. Ideato, scritto (?), condotto e montato da me medesima.

Come Mork e Mandy è nato da Happy Days così L'Ascoltatrice nasce da Radio Cole, uno spin off dedicato agli audiolibri e ai podcast (altrui) che ascolto e che amo.

Il primo episodio è dedicato all'inglesissimo Alan Bennett ed alle sue storie sempre originali.

Perdonate la voce da gallina strozzata ma apprezzate l'impegno.
Buon ascolto!
 

L’immagine, che ritrae il parco del Valentino sotto la neve, è opera di Uccio “Uccio2” D'Agostino


Il 13 gennaio del 1985 l'Italia fu coperta dalla neve. A Torino non si registrarono dei veri e proprio record ma, noi bambini sabaudi dell'epoca, quella nevicata ce la ricordiamo ancora. Ed, io, per festeggiare l'anniversario ne ho scritto un racconto su TorinOggi.
Buona lettura!


Erano finite da poco le vacanze natalizie, il presepe era stato smontato e messo al sicuro in cantina, mentre un rametto di vischio restava ancora appeso al lampadario dell'ingresso. 

Io ero appena tornato da scuola e, dopo aver mangiato di corsa, mi ero precipitato in cameretta a giocare con uno dei doni che Gesù Bambino mi aveva lasciato quell'anno, una macchinina telecomandata che era una vera bomba! 

"Vai a fare i compiti!" mi aveva inseguito mia madre, entrando in camera con le mani sui fianchi e l'aspetto minaccioso. Solo a quel punto avevo alzato lo sguardo e l'avevo visto, l'avevamo visto entrambi. Il cielo si era fatto bianco. Io lasciai perdere la macchinina e appiccicai la faccia al vetro della finestra. Mamma mi fu subito accanto, “È arrivata anche qui" la sentii dire.

Continua...

Applausi, gioia e giubilo, standing ovation per gli ultimi racconti nati dal Laboratorio Condiviso di Scrittura. Ogni partecipante ha pescato tra tutti gli esercizi assegnati quest'anno e ne ha scelto uno.

Che grande avventura è sta questa. Ringrazio tutti, tutti, tutti, coloro che hanno partecipato, quelli da un racconto solo come i fedelissimi, coloro che hanno letto e pure coloro che mi hanno detto "prima o poi partecipo eh" e poi chi li ha più visti? 

Ringrazio voi che avete regalato a me e al mondo le vostre storie, la vostra fatica, il tempo dedicato a una parola dopo l'altra a una frase dopo l'altra, la vostra immaginazione e, in qualche caso, persino i vostri segreti.

Questa avventura si conclude con una miscellanea di storie, tanta gioia e parecchia nostalgia.

Buona lettura a tutti e, non temete, qualcos'altro m'inventerò!





La sua camera era rimasta esattamente come l’aveva lasciata, tre anni prima. Le fotografie che avevano vinto dei premi erano ancora lì, appese alle pareti. Il letto aveva ancora il piumino a tinte vivaci che tanto gli piaceva, su una mensola le foto più importanti della sua vita lo guardavano, circondate di argento massiccio che suo padre aveva cesellato.

Dalla cucina proveniva un buon profumo di pasta al forno, il suo piatto preferito. La madre lo stava preparando per festeggiare il suo ritorno a casa per le feste, il padre leggeva il giornale sul divano del salotto, come faceva tutte le domeniche.

La sua attenzione era stata catturata da una fotografia al centro esatto della mensola, una ragazza con gli occhiali scuri ed i capelli blu che guardava dritta in camera. Ricordava esattamente quando la foto era stata scattata. Era sdraiata sul trampolino di una piscina vuota, il suo migliore amico sopra di lei che cercava di non precipitare di sotto mentre scattava la foto, una vita fa.

Poco tempo dopo, aveva preso la decisione più difficile della sua vita. Era una splendida domenica di sole i cui raggi attraversavano il salotto illuminando il divano sul quale i genitori si erano seduti. Dopo qualche esitazione aveva iniziato il suo lungo racconto, in cui ricordava il voler giocare ai cosiddetti “giochi dei maschi” quando era piccola, la mancanza di un ragazzo, tutti quei piccoli segnali che si sarebbero poi tramutati in una ineluttabile ed a tratti feroce presa di coscienza. Lei non era una ragazza, era un ragazzo intrappolato in un corpo che non gli apparteneva, ormai era arrivato a un punto tale che non era possibile tornare indietro. I dottori la chiamano “riassegnazione di genere”, aveva spiegato, e comprende l’assunzione di ormoni, lunghe sedute psicologiche ed infine la chirurgia. Non voleva soldi, aveva detto, il suo lavoro legato alla fotografia le aveva dato l’indipendenza economica già da un po’, insieme ad un piccolo appartamento che fungeva anche da studio, voleva solamente che loro sapessero e che cercassero di comprendere ed appoggiare la sua decisione.

La madre aveva preso un profondo respiro ed aveva parlato a lungo. Tutti quei segnali erano stati visti e discussi nell’intimità insieme al marito, avevano convenuto entrambi che c’era qualcosa di insolito in quella figlia che giocava come centravanti e che aveva sempre preferito i trenini alle bambole. Ma, aveva proseguito, avevano deciso che andava bene così, la cosa più importante era che lei fosse felice. Quindi no, non era stato esattamente un trauma sentire quelle parole dalla figlia che si dovevano abituare a chiamare figlio, ma di sicuro ci sarebbero volute molte spiegazioni ai parenti, in special modo alle zie che avevano una mentalità molto meno aperta della loro, ma che ci avrebbero provato.

Il padre invece aveva inaspettatamente piegato il giornale con molta cura e si era allontanato dalla stanza. Per quasi tre anni il ragazzo non aveva mai ricevuto da lui un messaggio, una telefonata o una lettera. Finché un giorno, al risveglio dalla sua quarta operazione chirurgica, aveva trovato un mazzo di fiori accanto al letto, il biglietto diceva poche ma potentissime parole: “Scusa. Ti voglio bene. Papà”. Aveva pianto di commozione e di gioia fino ad addormentarsi.

E così il ragazzo si ritrovava nella sua vecchia stanza, col profumo del pranzo ed i ricordi che gli parlavano dal contenuto delle cornici d’argento cesellate a mano. Passando davanti allo specchio, il riflesso della sua figura era irriconoscibile rispetto a quella ragazza coi capelli blu e gli occhiali scuri che guardava dritto, quasi a sfidare, l’obiettivo che la stava ritraendo. Adesso aveva i capelli cortissimi e biondo scuro, un filo di barba ed il fisico muscoloso e ben definito. Ma non tutto era cambiato, l’amore dei suoi genitori era immutato, dandogli forza e determinazione. Il cammino sarebbe stato ancora lungo e difficile, questo lo sapeva, ma con i genitori al suo fianco niente pareva impossibile.

Con un mezzo sorriso era uscito dalla stanza, chiudendo alle spalle la porta e il suo passato. Adesso avrebbe avuto tante cose di cui parlare con i suoi genitori, davanti ad un buon piatto di pasta e ad un futuro importante e luminoso.

Beppe Carta




“Ogni movimento quella mattina era fatto per irritare, un cartone inanimato alla volta, un continuo aprire e chiudere quella dannata porta. Tutto sembrava fatto per far uscire il residuo di tepore rimasto, per far entrare il freddo nel nido che si stava svuotando irrimediabilmente durante il peggiore degli inverni. Dal vetro era scomparso anche quella sorta di “benvenuto” appiccicato. Una specie di copia della coppia caricaturizzata, adesiva, bidimensionale, con colori brillanti, con facce allegre e vestitini tondi e morbidi, di quelle che recitano il mantra “Love is...”. Sì, la porta, quella che avevo lasciato sempre aperta, a tutte le ore, in qualsiasi giornata, con qualsiasi condizione meteorologica. Aperta a chiunque, soprattutto a chi non mi garbava (reciprocamente), anche a chi aveva remato contro la nostra coppia, anche a lui che da un anno la utilizzava come una portineria. Sulla porta del frigorifero avevo messo il mio cuore, che recitava “dove c'è Amore c'è Casa”, lo aveva visto e io non avevo potuto fare a meno di vedere il suo ghigno, che oramai aveva smesso di coprire. Più avanti nel tempo lo avrei stanato, per sentirmi rinfacciare che in fondo ero stata io ad averlo chiuso fuori di casa. In effetti quel giorno, quando stava traslocando nella sua nuova vita, ero ferma sulla mia posizione dichiarata da sempre, sui cerchi che si stavano chiudendo inesorabilmente. Neanche quella sera chiusi la porta. Ma poi arrivò l'indomani con tutti gli andirivieni necessari e qualcuno in più, allora mi sentii pronta... e fu così che mi chiusi la porta alle spalle e, questa volta, per sicurezza, diedi anche due mandate.”

Sirena Aliena

***

Da fuori, la fabbrica aveva perfino un bell’aspetto. Mi avevano detto che era opera di un grande architetto, Agnelli era un uomo che amava le belle cose. Avevo ventidue anni, fidanzato in casa, vivevo in un monolocale sul ballatoio in attesa di sposarmi con Lorella, mia coetanea, impiegata presso un avvocato. Tiravo la cinghia per mettere da parte i soldi per il matrimonio. Ero bravo a fingere. La domenica erano tutte uguali: pranzavo a casa dai suoi, poi andavamo in centro a fare una passeggiata mano nella mano, discorsi approssimativi sul nostro futuro, bacio tiepido sulla guancia sulla soglia di casa. Salivo sull’autobus e vedevo la gente prendere fuoco, chiedevo permesso, scusi, devo scendere, camminavo per chilometri sudato e affannato, cercando di riportare il battito del cuore alla normalità.

Guarda che faccia che hai, si vede che non te la dà. Ragazzi, qui dobbiamo organizzare una spedizione a puttane per il ragazzo pugliese, quella timorata di dio lo sta facendo andare fuori di testa. Gerardo, il mio compagno alle presse, si preoccupava per la mia salute. Gli altri annuivano, confabulavano, volevano trovare un rimedio. Io stavo zitto, loro mi assicuravano che non era così che doveva andare, l’avessero avuto loro un buco per scopare in santa pace alla mia età. Altro che matrimonio, tiè fuma, che sei preoccupante. Cazzo, ma da dove è uscito questo qui? Dalla Puglia, rispondevo. Ecco, sei un disonore per la tua terra.

Così, decisero per una cura di altro genere. Mi portarono al circolo operaio, due locali al piano terra in mezzo alle case popolari, pieni di gente, fumo, le chitarre, i manifesti di Potere Operaio con il sole radioso, le ragazze che ancheggiavano. Il vino aspro, forte, e un senso di comunanza mai vissuto prima. Dai, sorridi, mi dicevano i compagni, e bevi ancora un po’. E quelle chi sono? Le compagne, le femministe, occhio, che neppure quelle te la danno, o se lo fanno, poi ti fanno la predica che sei un fallocrate di merda, attenzione, ragazzo. Meglio la tua Lorella, o Loretta o come tramischia si chiama. A proposito, la vedi ancora, quella piaga? Certo che la vede ancora, sono fidanzati in casa, il ragazzo si è fottuto con le sue stesse mani.

How do iiu feel, like a rolling stone. Avevo imparato la canzone che mi rispecchiava in pieno. La cantavo, tutto concentrato per via del mio inglese popolare, quando era arrivata lei. Spostati, mi aveva detto, e si era seduta in braccio. Come è che ti chiami tu? Sei nuovo non ti ho mai visto prima. Aveva un profumo forte, pungente, che non conoscevo, è patchouli, mi disse. Aveva tre metri di sciarpa addosso, credo fosse fatta con gli avanzi di lana. Sembrava assorta, concentrata, gettava fuori il fumo della sigaretta e potevo contarle i denti candidi, mentre cercavo di tenere a bada un’erezione che si faceva avanti impavida. Secondo me aveva bevuto troppo, ma se è per quello anch’io non avevo scherzato. All’improvviso tutto sembrava talmente facile, posso venire a trovarti? A casa? Si, certo, cos’hai, sei tutto rosso, non ti senti bene? Deve essere che ho bevuto troppo. L’idea di averla in casa, solo per me, era intollerabilmente meravigliosa.

Dopo una settimana, quando ormai non ci speravo più, mi aveva bussato sulla porta a vetri ed era entrata come un uragano nella mia stanza. Dopo un attimo di reciproco imbarazzo, ecco che mi sospingeva sul divano letto, per fortuna già chiuso, e mi aveva abbracciato, avvolgendomi, inchiodandomi, prendendomi di sorpresa. Ero terrorizzato. Di sesso non ci capivo niente. Lei respirava piano sul mio maglione, io la trattenevo accarezzandola dolcemente tra i capelli, Capivo che quello era una specie di miracolo e non volevo rovinare niente. Ma quale fosse la prossima mossa, io non lo sapevo. Dovevo toccarle il seno, sfilarle il maglione, leccarle le dita? Non volevo rovinare niente. Mi piaceva stare così, stretto, sentire che non le stavo facendo del male. Il tempo passava e per quel che mi riguarda, non esisteva più niente al di fuori di noi due. La sera ci avvolgeva, non avevo il coraggio di accendere la luce.

Tu sei diverso, dagli altri, mi diceva, sei bello. Ora devo andare. Se non arrivo per le sette e mezza, mio padre mi spara. Dice che ho solo diciassette anni, a me sembrano tanti e a te? Mi faceva domande ma non aspettava mai le risposte, galoppava sempre un metro avanti a me, posso tornare vero? Sulla porta mi aveva baciato, un bacio vero, come quelli dei film.

Nel giro di un mese, avevo disdetto il contratto di affitto, dato il preavviso in fabbrica. Fai bene, avevano detto i compagni, sei troppo giovane per restare a marcire qui dentro, vai giù coltiva la terra, metti su una falegnameria, non farti succhiare la vita. Approvavano? Si, approvavano. Non vedevo più scoppiare gli incendi, le allucinazioni erano finite. Con Lorella era stato difficile. Era dura con me, non capiva, se avevo un’altra perché me ne andavo, non avevo un'altra e lei non c’entrava niente, ero io che avevo sbagliato, avrei deluso i suoi genitori, e i miei, certo che non crescevo mai, ero proprio un immaturo.

E l’altra? La principessa era tornata un pomeriggio, con i biscotti per il tè. Mi raccontava della manifestazione per l’aborto libero, dei suoi problemi a scuola, di un tipo che le piaceva. E come mai volevo tornare al paese, e la mia ragazza che diceva. L’ho lasciata. Davvero? Senti, sai che c’è, ti regalo la mia sciarpa per ricordo, poi per le vacanze vengo a trovarti, se non vado in Grecia con le amiche, se mio padre mi lascia, dio che palle, certo al ritorno potrei passare, la puglia però è di strada se scendo a Brindisi posso raggiungerti. Ma davvero l’hai lasciata?

Dopo una settimana, era arrivato il giorno della partenza. Il mio monolocale aveva l’aria triste e abbattuta di sempre, con le pareti gialline e il calendario appeso di sghimbescio a cui non avevo più strappato i giorni. l’ho scampata bella, avevo detto, rivolto alle mie valige sul pavimento. Cosa dici, ragazzo pugliese ex-operaio Fiat? Gerardo era venuto a prendermi. Niente, parlo da solo, andiamo che si fa tardi. Mi chiusi la porta alle spalle, per sicurezza diedi due mandate. 

Barbara Fiore



Lola Larsen era la ragazza più bella di tutto Buenos Aires. Un corpo esile ma dalle giuste forme, lunghe gambe da gazzella, capelli talmente chiari da sembra bianchi, occhi verdi da gatta. Un aspetto fatto per sedurre che nascondeva un carattere spigoloso e poco incline alle moine.

Era arrivata in Argentina, insieme ai suoi nonni, all’età di quattro anni. La madre era morta pochi mesi prima e i tre si erano imbarcati dalla Svezia per raggiungere Olav Larsen, suo padre. Ricco imprenditore che era partito per il Sud America quando la piccola Lola doveva ancora venire al mondo. Aveva annusato un’occasione e aveva scelto di lasciare la giovane moglie da sola con il pancione. La piccola Lola non gliel’avrebbe mai perdonato.

Questa piccola bimba svedese era venuta al mondo quando le giornate erano brevi e le notti lunghe ma la madre aveva scelto per lei un nome caldo e straniero proprio per legarla a quel padre così lontano.

I nonni di Lola erano morti nel giro di pochi mesi. Olav e la bambina erano rimasti da soli. L’uno accanto all’altro a guardarsi sconosciuti.

Lola sarebbe stata cresciuta da numerose tate, avrebbe imparato rapidamente lo spagnolo ma l’avrebbe sempre parlato con un curioso esotico accento che, ormai donna, ne avrebbe addirittura aumentato il già notevole fascino.

Ottima musicista, portata per le lettere e ben educata. Lola era una dama bella e fredda, chiusa in un mondo privo di affetti.

Non aveva ancora compiuto quindici anni quando la sua eterea bellezza cominciò ad attirare l’attenzione degli uomini per strada o degli amici di suo padre. Molti la guardavano con la reverenza che si deve a una Madonna, altri con la lascivia ispirata dalla Maddalena. Lei ignorava in ugual misura sia gli uni che gli altri. Li notava ma non ricambiava, mai. Non che non volesse sposarsi. Lo desiderava moltissimo. Voleva una casa propria, voleva lasciare dietro alle spalle un padre verso il quale provava un irrazionale ma inossidabile rancore.

Desiderava un marito ma non voleva sbagliare, voleva l’uomo giusto accanto a sé, dai quattro anni in poi era stata costretta a trascorrere la propria infanzia con chi non amava, non avrebbe permesso che succedesse ancora. Non che volesse innamorarsi follemente. No, quello, no. Anzi, quello lo voleva proprio evitare, non voleva che l’amore annebbiasse il suo giudizio, proprio com’era successo a sua madre. Voleva un uomo accanto che non l’abbandonasse. Non lo doveva amare, l’amore era un sentimento volubile, lei voleva una presenza stabile, a cui appoggiarsi, di cui fidarsi.

Ed è per questo che più cresceva più si guardava in giro con attenzione. Non troppo giovane né troppo vecchio. Una professione stabile, un animo gentile. Infine, tra tutti i conoscenti di suo padre scelse il notaio Pedro Lopez. Era scuro, dove suo padre era chiaro, era allegro dove suo padre era rigido, era un figlio di quella terra e la guardava con ammirazione ma anche con allegria. “Signor Pedro” disse offrendogli dei pasticcini durante un piccolo ricevimento che suo padre aveva voluto organizzare per festeggiare l’ennesimo successo.
“Signor Pedro…”
“Buona sera madame Lola”
“Avrei una domanda da farle”
“Mi dica” disse addentando il pasticcino e sporcando di zucchero a velo i baffi neri.
Gli altri erano riuniti a chiacchierare in piccoli gruppetti, attorno a loro non c’era nessuno.
Pedro la guardava in attesa. Lola allungò il collo, sollevò il mento e fece rigide le spalle ancora più del solito. 
“Avrei una domanda da farle”, ripeté, “le spiacerebbe sposarmi?”

Jane Pancrazia Cole






“Non l'ho mai raccontato a nessuno... che in un giorno d'estate, con trenta gradi e una cappa d'afa, a poco a poco, si respira gelo, soffia un vento sospeso di parole non dette per timore, per orgoglio, per pregiudizi, a scoprire i sentimenti; e d'un tratto sembra la scena di un teatro, dove le attrici sono manichini di cera in una vetrina; incomprensioni che ingabbiano le vite, ragioni che rimbalzano come una palla su muri di gomma; e quanta fatica per trovare un punto d'incontro e per spiegare le ali, per essere in pace con la vita.”

Naomi



Dal mio punto di vista? Di poteri non ne ho nessuno, sono gli altri ad essere desolatamente normali. La loro tridimensionalità è un piattume che fatico ad osservare.
Sono troppo spensierata mi dicono, ma non posso fare a meno di trarre la gioia dalla mia quotidianità quando posso attrarre a me qualsiasi cosa io desideri con la facilità con cui mi vesto di un sorriso.
Mi piace danzare, e roteare, con i miei abiti vellutati, e nel mio vorticare attiro gli sguardi di chi è smarrito nella propria quotidianità dagli angoli ragionevoli.
Se ruoto abbastanza veloce, posso sparire, smetto di riflettere la luce che può incontrare i loro occhi ordinari, divento altro.
Scelgo talvolta di non essere trovata, e scelgo spesso di guardare oltre, nelle dimensioni che gli altri non possono vedere, vi cerco la bellezza.
Quando lo desidero, ciò che tocco si può cristallizzare in un eterno presente e si allunga all’infinito, sospeso sull’orlo della mia pelle, perché posso flirtare col tempo, che mi è amico. Quando lo incontro, il tempo, lo sfioro con la punta delle mie dita e ci osserviamo con calma in un istante eterno. Interrompo il contatto ed è già lontano.
Mi chiedono perché così splendida io sia ancora single, ma io sono molto più che single, sono una singolarità.
Io mi basto e mi completo, mi riempio e sono luce, anche quando per i loro occhi risulto assente, custodisco il tesoro che mi rende invincibile e plasmo ciò che mi circonda come voglio, perché non sono imbrigliata nei confini che mi attribuiscono. Se pensate che il mio sorriso sia solo due labbra e dei bei denti, vi siete persi un viaggio infinito tra i miei ossi alveolari.
Spesso mi hanno chiamato supereroe, e mi hanno chiesto come usassi le mie capacità per salvare il mondo.
Non condivido il loro punto di vista, e non perdo tempo a cercare di spiegare cosa significhi la mia esistenza. Mi chiamo Singleton e custodisco il segreto che rende l’universo possibile.

Marina Alice Cibin



Vi svelo un segreto grande, enorme, monumentale: BABBO NATALE ESISTE. 

Ve lo dico perché l’ho conosciuto, una notte d’inverno di inizio dicembre al bancone del Civili (n.d.r. storico locale livornese) davanti ad un ponce al mandarino caldo caldo. 
Vi descrivo brevemente la scena, per come me la ricordo. È passata nella mia mente così tante volte, oramai, che mi sembra quasi di averla vissuta ieri e non anni ed anni fa. 

Quell’uomo grande e grosso, con un vestito oramai consunto, le mani piene di galle di chi lavora duramente, il capo chino e pensieroso di chi ne ha viste tante, mi fa, dopo avermi pestato un piede ed urtato pesantemente per alzarsi e cercare di dirigersi – forse - in direzione bagno: “Ma sono bria’o?”.
“No no, non si preoccupi, ha solo qualche macchia di alcol e zucchero qua e là sul vestito rosso” – provo a dire. 
“De, e regali fii” – mi risponde, come a dire “non si preoccupi, signore, non fa niente” e mi abbraccia, con quel barbone oramai appiccicoso e puzzolente. Credo fosse seduto là dall’inizio del pomeriggio e che quello fosse il trentesimo ponce. 
Quando mi ha mostrato il bicipite ed il suo tatuaggio, ho deciso di fare quello che si fa in questi casi: gli ho preso lo smartphone ed ho chiamato il primo numero nel registro delle chiamate. Nientepopodimeno che La Befana. 

Una mezz’ora più tardi mi ero ritrovato seduto al bancone con lei. La Befana. 
“È saòsa? Un è mi’a che aggaisce di fame! C’ha solo d’andà in pensione a fine anno.” - A quanto pare, Babbo Natale aveva anche fatto proprio il detto “moglie e buoi dei paesi tuoi”. 
Continuando: “È tarmente allezzito che du’ citti in meno a fine mese ni fanno bruciaùlo. Be’ mi’ vaini, chissà che fine ni ha fatto fa’’” – come a descrivere un Babbo Natale moderatamente tirchio e ben poco avvezzo alla gestione dei soldi. 
Quindi, il povero Babbo Natale era soltanto un anziano fragile in depressione pre-pensionamento. 
Che uomo! Che cuore! 
Quella è stata la prima e l’ultima volta che li ho visti. In realtà, l’ultima volta che sono stati visti da qualcuno. 

“Tip tap tip tap 
Questa è l’ora l’ora dei folletti 
Tip tap tip tap 
Pazzerelli saltano i folletti 
Nella casa 
Stiam cercando cose buone e dolci da mangiare 
Pazzerelli saltano i folletti 
Stiam cercando proprio te.” 
Questa è la melodia che ha accompagnato l’irruzione ed il mio accerchiamento da parte di 10 stupidi folletti nel mio salotto, qualche settimana dopo. Non sembravano dolci-teneri-pazzerelli: vi dico solo che non riesco più a guardare Netflix da solo nel mio salotto. 
Recitando lentamente “tip tap tip tap” si sono allontanati ed è rimasto solo un folletto un po’ più alto, con la giacca ed incravattato. 
“Signor Brucialippa” – sapeva anche il mio nome! – “la mia visita non è casuale. Lei è l’ultima persona ad aver visto Babbo Natale e la Befana. Dal 7 dicembre Babbo Natale numero 17 è completamente scomparso nel nulla.” 
“Il Natale è in pericolo!” – sono saltato giù dal divano, già immaginandomi come l’eroe di un film natalizio o l’eroe in tutte le testate di giornale: “il Signor Brucialippa salva il Natale”. 
“Signor Brucialippa” – con quel tono mi ci chiama solo la ragazza che viene a fare le pulizie quando lascio troppo sporco – “La notte di Natale NON è una notte improvvisata. 
Nemmeno Amazon ha un sistema così fitto ed organizzato di ricevimento missive, magazzini locali, spie diffuse in tutto il mondo per segnalare, per esempio, che la nonna o la zia non abbia già comprato il regalo che il bimbo desidera. 
Quindi non si preoccupi del Natale. Si preoccupi di dirmi TUTTI i dettagli, movimenti o frasi che quei due sciagattati hanno fatto o detto”. 
Nonostante l’accento nordico e l’atteggiamento a signorina Tumistufi, qualcosa da quei due “sciagattati” l’aveva presa. 
“Il Vecchio era sempre stato un po’ strano. Essendo tutto ben organizzato, lui doveva fare solo da uomo-immagine. 
Eppure una cosa la voleva fare, disgraziato. 
Girava per le case – tutte le case del mondo – la notte dell’8 dicembre e rubava un addobbo, un vecchio regalo, un oggetto non molto visibile. VOI pensate l’abbia rotto il gatto; VOI pensate che sia rimasto in chissà quale scatolone. No. Era lui, Babbo Natale numero 17. Il Ladro. 
Rubava ai ricchi per dare ai poveri? Macchè! Per dare a sé stesso. 
Gli piaceva avere l’Albero ed il Presepe più grandi del mondo. 
Pazzo di un numero 17. 
Ora, il numero 18 è un tedesco fanatico. Ha scoperto il magazzino “diverso” e si è ricordato di un oggetto che gli è sparito un Natale di 20 anni fa di cui non si era mai dato pace. Purtroppo il magazzino “diverso” non ha il catalogo digitale e cercare là dentro un piccolo oggetto di chissà quale forma è un delirio. 
Vuoi farmi lavorare in pace col nuovo capo? Eh?” – mi aveva preso improvvisamente per la collottola, mentre per il resto del tempo aveva camminato in cerchio muovendo esagitatamente le mani e parlando a sé stesso. Tanto che nel frattempo mi ero fatto un thè per dimenticarmi degli elfi. 

Io non avevo saputo aiutarlo. 
Ma quell’incontro con Babbo Natale e la Befana non lo dimenticherò mai. 
Ogni volta che ci penso mi viene da fumare. Ho iniziato di nuovo subito dopo quel 7 dicembre. Mi sono trovato un accendino in tasca con sopra incisa una birra dell’Oktoberfest e..voilà! Chissà dove l’ho recuperato. 
Sono quegli oggetti che recuperi, che perdi e non te ne accorgi nemmeno. 
Gli accendini sono come gli ombrelli, no? O come la decima pecora del Presepe...

Marianna Palmerini

***

Maya amava il Natale, trovava inebrianti le luminarie della città, le decorazioni dei negozi; profumava persino la casa spargendo ovunque scorze di agrumi e sorseggiava con piacere vari infusi speziati. Sua madre Emma invece rimaneva piuttosto indifferente all’atmosfera delle feste. Non che Maya avesse mai avuto una spiegazione in merito a quello strano fenomeno, ne prendeva semplicemente atto ogni anno, sperando che prima o poi la donna cambiasse idea. Con i pochi risparmi della paghetta aveva comprato un piccolo albero sintetico, che decorava con palline dai colori diversi. 
Avrebbe tanto voluto aprire quella scatola in legno – posta nello scaffale più alto del ripostiglio – con su scritto “Vecchie decorazioni da non usare”, ma era sigillata e ogni volta che chiedeva a sua madre che cosa contenesse, riceveva sempre la stessa risposta: “Tu fai finta che non esista”. 
C’era solo un addobbo natalizio che Emma ogni anno si prendeva cura di togliere da una sacca di pesante velluto rosso pieno di morbida ovatta: la statuina di un soldatino Schiaccianoci, proprio come quello dell’omonimo balletto, con tanto di giubba rossa, barba bianca, corona dorata e bastone di ordinanza; Emma era stata una ballerina professionista prima che Maya nascesse e lo Schiaccianoci di Marius Petipa era il suo balletto preferito, portava la figlia a vederlo ogni volta che quella rappresentazione era in città, soprattutto nel periodo natalizio. Maya gioiva nel vedere la madre che felice canticchiava tra sé le note tanto conosciute, seguiva i passi con un lieve movimento del capo, piangeva durante la danza dei fiocchi di neve. 
Sì, di quel periodo era decisamente quello il giorno che la ragazza preferiva. 
La notte della vigilia Maya fu svegliata da un tonfo, si girò verso sua madre che invece dormiva tranquilla e scese dal letto per andare a vedere cosa fosse successo. Era certa che il rumore fosse stato in sgabuzzino e mentre vi si avvicinava sentì anche dei lievi bisbigli, che crescevano di intensità man mano. Aprì la porta e accese la luce: i bisbigli sparirono ma si preoccupò non poco nel vedere la scatola in legno proibita che giaceva semi aperta sul pavimento, facendo trapelare tutto il suo contenuto. Erano delle decorazioni bellissime: tutte dipinte a mano, in vetro, ceramica, legno, di tutte le forme e dimensioni. Statuine a forma di Babbo Natale, cristalli di vetro; c’erano persino le statuette della favola di “Alice” di Carrol; di Pinocchio, una di un Mariachi col sombrero e tante altre. 
Il cuore della ragazza batteva a mille: se sua madre l’avesse scoperto? Se qualcuna di queste si fosse rotta nella caduta? Rimase incerta sul da fare quando d’improvviso una voce: “È tardi, è tardi è tardi! Che aspetti a portarci in un posto sicuro?” 
Dallo spavento per poco non fece scivolare il Bianconiglio dalle sue mani. 
“Tu parli?” 
“Shhh, o Emma potrebbe sentire!” Disse un’altra voce dalla scatola. 
“Ma che diavolo…” 
“Nessun diavolo ragazzina, noi portiamo gioia.” 
“Siamo rimasti chiusi dentro tutti questi anni a fare la muffa, altro che gioia!” 
Si lamentò un’altra voce. 
Maya era terrorizzata. Stava sognando? 
“Vamos vicino all’albero e te esplicheremo todo!” 
E lei molto lentamente, ancora in stato di shock, obbedì al piccolo mariachi. 
Una volta lì anche lo Schiaccianoci parlò: “Ce ne avete messo di tempo!” 
“Zitto tu, che sei l’unico che proprio non può lamentarsi!” Gli inveì contro Alice. 
“State tutti bene?” chiese Il Re di Cuori. 
“Io mi sono rotto in due pezzi, ma non sono grave.” Disse un angelo di coccio. 
“A me manca una punta.” Disse un intarsiato abete in legno. 
“Insomma voi chi siete?” 
Il Re di Cuori continuò: “Noi siamo le vecchie decorazioni dell’albero di Natale di Emma, alcuni di noi abbellivano addirittura l’albero della casa dei tuoi nonni a New York. Proveniamo da tutto il mondo, da tutti i posti in cui tua mamma ha vissuto e in cui ha viaggiato prima che tu nascessi. Vedi? Lui proviene da Amsterdam, lui da Stoccolma, io da Oxford...” 
“Viaggiava per via della danza?” 
“Non solo, era una passione che aveva in comune con tuo padre.” 
“Oh, stavi andando così bene…” disse un pennuto giallo su una calza grandissima con scritto ‘Sesame Street’. 
“Non preoccuparti.” Rispose Maya “Ho pochi ricordi di lui e mamma non ama parlarne.” 
“Dopo che tuo padre ha avuto l’incidente ricordare i momenti con lui le faceva troppo male e così ci ha messo tutti nella scatola.” 
“Ha messo tutti noi, non te.” 
“Alice ha ragione: tutti loro. Io sono stato risparmiato perché non faccio parte di quei ricordi.” 
“Io provengo da un romanticissimo week end a Praga proprio nei giorni di Natale”. Disse una campanella di cristallo. 
“Anche io sono stato comprato a Natale.” 
“Anche io…” 
“Pure io…” 
“Ora capisco.” Disse Maya “Ma perché parlate? La scatola è caduta per un incidente? Io non voglio finire nei guai!” 
“Abbiamo sempre parlato ma mai in tua presenza! È il tuo spirito natalizio che ti dà il potere di sentirci, io l’ho sempre percepito e mentre me stavo dentro l’ovatta ho proposto agli altri di provare il tutto e per tutto, sperando nel tuo supporto”. 
“Io non ho mai voluto parlarti!” 
“Oh Alice, lo Schiaccianoci non ha colpe, non credi? Vi prometto che farò il possibile per aiutarvi. Certo è che avete corso il rischio di rompervi tutti, siete così belli ma così fragili!” 
“In realtà Emma ha sempre avuto cura di noi, guarda qui.” 
La stessa cura con la quale Emma faceva riposare il soldatino natalizio era stata riposta nella scatola di legno; Maya diede un’ aggiustatina ai pezzi rotti, li pulì per bene e sostituì le palline colorate con quei nuovi amici che scintillavano alle prime luci dell’alba. 
Quello sì che era un albero di Natale super. 
“Credi che mi metterà in castigo?” Chiese la ragazza al soldatino di legno. 
“Ormai sei grande! Falle capire che il suo passato non deve essere un ostacolo alla sua vita, alla vostra vita e vedrai che non ci saranno più decorazioni natalizie rinchiuse, anzi, tante altre si aggiungeranno alla collezione!” 

E così fu. 

Dedicato a tutte le persone a cui manca viaggiare: non rinchiudete la progettazione di un viaggio futuro in una scatola anzi coltivatela perché prima o poi potremo tornare a vedere il mondo e lui non vorrà vederci impreparati! 

Elisa Pozzati

Nuovo anno. Nuovi consigli.
Il 2021 è cominciato da pochissimo e io sono pronta a darvi i primi consigli sulle cose da fare, vedere e leggere.

Per il mese di gennaio inizio con Blob opera prodotto da Google Arts & Culture. Un angolo di web in grado di risvegliare tutte le Mariele Ventre che albergano in voi. Un coro formato da quattro morbidosi e canterini elementi. Potete cambiare il tono di ognuno di loro, potete farli esprimere in virtuosismi al limite del lecito, potete sbizzarrirvi. Un passatempo ideale per chi ama la musica e soprattutto il canto.

Per chi ama leggere, invece, vi consiglio il tradizionale post di fine anno de I Russi. Anche quest'anno ci abbiamo messo la faccia ed ognuno di noi ha consigliato uno dei libri letti nel 2020. Io, come al solito, sono stata stra nazional popolare e, inoltre, nel mio consiglio ho nascosto un'anticipazione circa la prossima rubrica che nascerà su questo blog. Siete curiosi? No??? Aridi!

Per i numerosi appassionati di scrittura che navigano questi lidi ho ben due segnalazioni. La prima, ovviamente, riguarda il mio Laboratorio Condiviso di Scrittura ormai agli sgoccioli. Avete tempo fino a domani, 6 gennaio, per partecipare all'ultimo esercizio e tutta la vita per riprendere i vecchi esercizi e svolgerli quando vi va.
La seconda segnalazione, invece, riguarda il profilo Instagram StorieArancio. Ogni post un incipit, uno spunto, un'idea per scrivere. Se sapete già che il mio Laboratorio vi mancherà, questa è decisamente un'ottima soluzione per non mollare penna o tastiera.

Infine, quest'ultimo consiglio è tutto pro domo mea. Amate il cinema? Amate ridere e sorridere? E allora, se non lo fate ancora, iniziate a seguire appassionatamente la pagina Facebook de Il Morandazzo. Questo critico cinematografico Sui Generis mi fa così ridere che me lo sono persino sposato. E lui è talmente bravo che, spesso, nel web c'è chi copia ed incolla il suo lavoro per spacciarlo per proprio. Lui la prende in maniera quasi zen, io un po' meno. E va bene che l'imitazione è la più grande forma di lusinga ma il furto intellettuale è solo una poracciata. 
Quindi seguite solo l'originale, diffidate dalle imitazioni.

Con i miei consigli per questo mese ho finito, buon divertimento e buon 2021!


Ho deciso di concludere questo anno con degli auguri natalizi diversi dal solito e, soprattutto, con un regalo che tutti, spero, possano apprezzare. Coloro che conoscono da sempre questo blog ma anche coloro che ci capiteranno per caso chissà quando in un lontano futuro. Per tutti loro, per tutti voi, ho riunito in un'unica pagina tutti i 21 esercizi del Laboratorio Condiviso di Scrittura 2020, in modo che chiunque, quando più desidera, possa cimentarsi e mettersi alla prova.

E come ultima prova di questa lunga ed emozionante avventura vi chiedo di scegliere proprio uno degli esercizi passati. Lo potete scegliere per caso o perché non l'avete mai fatto o, ancora, perché ai tempi l'avevate già svolto ma pensate che questa volta potreste creare qualcosa di migliore. Potete chiudere gli occhi e lasciare fare al fato o scegliere con attenzione certosina. L'importante è che alla fine selezioniate uno degli esercizi e lo svolgiate entro le ore 12 del 6 gennaio 2021.

Mandate il vostro scritto a me, all'indirizzo janecole@live.it. Scrivete nell'oggetto Laboratorio Condiviso di Scrittura e specificate, nel corpo della mail, con quale nome vi firmate e se volete essere taggati su FB.

L'8 gennaio, per l'ultima volta su questo blog, tutti i vostri (nostri) scritti verranno pubblicati e io non avrò mai abbastanza parole di ringraziamento per tutti coloro che hanno preso parte a questo lungo, impegnativo ma bellissimo progetto.

E ora: Buon Natale!


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