Tutto ciò che accadde prima che mi chiudessi la porta alle spalle


Il percorso del Laboratorio Condiviso di Scrittura Creativa continua e oggi è il turno dei racconti realizzati per il sesto esercizio.

Forse l'esercizio più complesso affrontato finora, sicuramente quello che, a un primo approccio, poteva spaventare di più: scrivere una storia partendo dalla fine, o meglio, scrivere un racconto sapendo già quale sarebbe stata l'ultima riga. Questa: Mi chiusi la porta alle spalle e questa volta, per sicurezza, diedi anche due mandate.

Non c'era un "metodo" per affrontare questa sfida, ognuno vi ha fatto i conti come ha potuto e saputo, mettendosi in gioco e dando vita a storie che, come mai prima d'ora, hanno attinto al mondo della fantasia e dell'inconscio.

Di seguito tutti i racconti, come sempre, in rigoroso ordine di ricezione. Il mio per ultimo.

Non appena ci misi la testa dentro, bastò meno di un secondo per abituarmi a quell’oscurità. Fu come ricevere un cazzotto in pieno naso. Sdraiato a pancia in giù, con il cuscino premuto nervosamente sulla bocca spalancata, così da soffocarne le grida, guardai il buio attraverso i miei occhi appannati di lacrime, lì sdraiato sul letto di quella che era la mia vecchia camera – il collo irrigidito, le tempie che tentavano di rimbalzare fuori dal cranio, il cuore troppo opprimente per quella semplice scatola. Percepii tutto un’altra volta. E questa fece dannatamente male. “Tieni un fazzoletto. Adesso fai un bel respiro. Ricordati: devi allontanare lo sguardo dal corpo, devi uscire da te. Esplora la scena come fossi uno spettatore e cerchiamo di schiarirla un po’”.
Qualche minuto dopo, deciso come un bambino ad una gara di apnea tra amici, inspirai più che potei e varcai ancora quella maledetta soglia. Stavolta però ci fui io davanti a me. “Ce l’ho fatta, Doc! Mi vedo” – “Bene. Continua a raccontare e concentrati su ciò che provi”. Babbo era di nuovo sdraiato sul divano, inconsciamente arroccato dietro quegli occhiali che mai aveva messo tanto storti, lui sempre così preciso, da buon ex-ingegnere qual era. Litigava con mamma, se la prendeva con lei per qualsiasi cosa ormai, ma stavolta non riuscii ad individuare quale fosse l’oggetto del diverbio. Odiavo vederli discutere, soprattutto detestavo con tutta l’anima vedere mio padre in quello stato. Attesi di sentire l’umido calore delle lacrime pugnalare le mie guance. Niente. Che strano. Osservai il mio altro io sbraitare un qualcosa di indecifrabile in direzione di papà, prima di correre verso il corridoio che portava alla stanza da letto. Non ebbi che una frazione di tempo per incrociare l’azzurro dolce e amorevole ma spossato delle iridi di mia madre, poi mi ritrovai accanto al letto, dentro quello scenario che conoscevo troppo bene.
“Quanto fa male da uno a dieci?” – “Mmm. Quattro o cinque” - “Ottimo, sta scendendo. Prova ad uscire da solo adesso. Cerca la porta”.
Fissai ancora un attimo quel volto familiare, teso e logorato dal pianto. Lo vidi come fosse incastonato dentro un quadro con dei colori più tersi, lontani dal buio che mi aveva sempre accompagnato. Non avevo mai pensato a questa prospettiva, fu una visuale insolita. Per la prima volta mi parve di intravedere un appiglio cui aggrapparsi per poter aiutare me stesso. Ragionai d’istinto sugli ultimi anni. Avrei dovuto espormi prima! Avrei dovuto chiedere aiuto! Sarei riuscito ad evitare le pastiglie e l’angoscia? Ne uscirò mai? Mi concentrai sul dolore, come un essere concreto, perciò allungai la mano verso il corpo e mi sembrò di toccarlo. Quando ti colpisce, scava nel profondo, lascia dei solchi che sono cicatrici. Quella spaccatura, apertasi svariati anni prima, mi era sempre apparsa come un abisso. Fino ad allora. Riaprii all’improvviso gli occhi – o forse erano già desti, solamente sbarrati – e di scatto mi voltai, girando la maniglia senza più esitare. “Riproviamo?” – “Quando ti senti pronto, parti pure”.
Sul fondo di quel baratro ci ero arrivato solo e svuotato, schiacciato da parole come glioblastoma, depressione organica, dalla desolazione della perdita di una grossa parte di me. Mi accorsi di essere riuscito ad arrampicarmi oltre l’orlo quando superai indenne il salotto e, ritornato dentro la stanza, mi sentii finalmente più leggero, sospeso sopra una nitida immagine di accettazione.
Dopo tanto tempo, rispolverai un sorriso, mi chiusi la porta alle spalle e questa volta, per sicurezza, diedi anche due mandate.
Iacopo Squarcina
Da giovane facevo la maestra, era molto tempo fa, quando ancora le foto di gruppo si facevano in bianco e nero ed i bambini si conoscevano tutti.

Mi ricordo di ognuno di loro, simpatici discoli con davanti un futuro tutto da costruire, ma in particolare mi ricordo di Riccardino, un ragazzetto cicciottello, sempre ben vestito e curato che riusciva a cavarsela con abilità in ogni circostanza. Per loro io raccoglievo nel tempo dei cioccolatini: ogni bambino a fine mese mi portava tanta cioccolata quanto poteva permettersi e io la ridistribuivo a chi non poteva averla.

E lui era sempre in prima fila. Ogni benedetta settimana Riccardino, quando io chiedevo a chi toccasse la cioccolata, si alzava di scatto urlando: a ME, signora maestra!

Non potevo sapere che invece Riccardino, non solo aveva le possibilità economiche di comprarsi tutta la cioccolata che voleva, ma evitava anche di dirmi che, a casa, aveva la scorta di cioccolata necessaria per campare un anno mangiando solo quella.

Ho poi avuto il sospetto che gli altri bambini sapessero, almeno alcuni, ma nessuno è mai venuto a dirmelo: non si fa la spia ad un amico!!! Anzi, vedevo spesso alcuni compagni a lui più vicini, strizzarsi l’occhio e darsi di gomito dicendo: vedi che furbo Riccardino??

Tra loro c’era anche Giulia, una bambina minutina, bionda, non tra le migliori della classe, ma di quelle che si impegnava molto per raggiungere, anche con fatica, gli obiettivi assegnati. Lei, a fine settimana quando distribuivo la cioccolata, mi diceva spesso che non le spettava, anzi era sempre tra coloro che me ne portavano un po’, perché se l’era presa con la paghetta della nonna o gliela aveva già comprata la mamma. Poi abbassava gli occhi e tornava mesta al suo posto.

Stavo mio malgrado commettendo un’ingiustizia, ma come potevo saperlo! Lo dovevo immaginare forse perché Riccardino era ben vestito e pasciutello? O forse mi avrebbero dovuto avvisare i suoi amici? Restava il fatto che la piccola Giulia, onestamente, dichiarava sempre la verità e alla fine della settimana, non riceveva mai niente.

Un giorno la fabbrica della cioccolata fallì e io non potei più fare quel gioco tanto amato. Tutti i bambini rimasero senza il loro premio, tranne Riccardino che aveva accumulato una bella scorta, in barba anche agli amici che lo avevano coperto. Ne avevo un pochino però nascosta in casa e, dopo aver scoperto il gioco crudele di Riccardino, invitai ad una festicciola tutti i bambini che erano stati onesti: cioccolata calda, pane e cioccolata, cioccolata bianca, al latte, fondente, col riso soffiato, con le nocciole e con le mandorle!

Invitai tutti, tranne Riccardino che era al sicuro in casa sua. Ma qualcuno dei soliti amici lo avvisò e me lo vidi apparire prima degli altri. Lo guardai negli occhi cercando in lui un barlume di vergogna o di pentimento, ma con fare di sfida mi guardò a sua volta e mi disse: “Anche a me spetta la cioccolata! Adesso che la fabbrica è chiusa nessuno potrà più comprarne e anch’io sono nelle stesse condizioni degli altri! Voglio la mia cioccolata, altrimenti tu maestra sei cattiva e fai differenza tra noi bambini che siamo tutti nella stessa situazione!”
Risposi: “Caro Riccardino, avresti potuto fare la tua parte prima che chiudesse la fabbrica: adesso è troppo tardi. Vatti a mangiare la cioccolata che hai in casa e lasciami in pace, che di quella mia ne faccio ciò che voglio!”

Mi chiusi la porta alle spalle e questa volta, per sicurezza, diedi due mandate.
Letizia Battaglia

Mi svegliai di colpo nel cuore della notte, gli occhi spalancati a fissare il buio e le orecchie tese ad ascoltare ogni minimo rumore. Accesi la luce sul comodino e quello che mi si parò davanti fu uno spettacolo al quale ero abituato: i soprammobili, le tende e la poltrona antica erano caduti, graffiati o morsicati. Il mio primo pensiero corse immediatamente ad Attila.
Trovai Attila in mezzo alla strada, in un giorno di pioggia. Un bellissimo soriano di appena qualche mese, spaventato, infreddolito. Lo portai subito a casa con me. Col tempo crebbe forte e sano, ma non fu mai in grado di superare il trauma e così stabilì che la sua casa - o per meglio dire il suo territorio - era la mia camera da letto. Presto mi adattai, gli portai ciotole e lettiera in camera, e sembrava essere il gatto più felice del mondo.
Si divertiva da matti a correre nella stanza buia, facendo cadere diversi oggetti, o si rifaceva le unghie sulle gambe della poltrona ereditata da mia nonna, ma lei ne sarebbe stata felice e quindi lo lasciavo fare con un mezzo sorriso. Anche quando la sua esuberanza giovanile fece posto alla pacatezza dell’età adulta, non si mosse mai dalla mia camera da letto, continuando a combinare guai ed a rifarsi le unghie sulla poltrona.
Adoravo quel gatto, riusciva sempre a infilarsi nel letto ed a dormire con la testa sul cuscino; la mattina mi svegliava col suo nasino umido e la lingua ruvida mi leccava il volto finché non mi svegliavo, sempre all’ora giusta, meglio di una sveglia. Non ho mai capito come facesse.
Finché una splendida giornata di sole mi svegliai con due ore di ritardo, nessun nasino umido, niente lingua a leccarmi la faccia. Attila era lì, come sempre, ma il suo corpicino era freddo. Mi aveva lasciato. Erano stati anni bellissimi fatti di danni e di corse notturne ma anche di coccole e di sincero affetto reciproco.
Riguardai quel disastro con un mezzo sorriso ma poi mi resi conto che Attila non c’era più, com’era possibile tutto questo? Esistono i gatti fantasma? E perché è ancora qui? Avevo letto da qualche parte che i fantasmi sono spiriti di persone che hanno lasciato dei conti in sospeso qui sulla terra, ma cos’ha in sospeso un gatto?
Nelle notti successive la storia si ripeté puntualmente. Ogni mattina soprammobili rovesciati, tende aggredite, e la povera poltrona della nonna mostrava gli inesorabili segni di graffi. Non poteva andare avanti così per sempre, cos’aveva lasciato di incompiuto, di non risolto?
Finché dopo qualche giorno realizzai. Avevo sgomberato la camera dalle sue cose, unitamente alla ciotola dell’acqua che aveva dipinta sul fondo un pesciolino a colori vivaci. Attila passava interi pomeriggi a fissare il pesciolino con lo sguardo predatorio e attento che solo i felini sanno avere. Andai a recuperare la ciotola, la riempii con un po’ d’acqua e la lasciai al suo solito posto
Il mattino dopo tutto era a posto, tutto in ordine. Attila aveva ricevuto quello che gli serviva. Sperai che quella notte potessi vedere una vivida luce bianca, un nasino umido ed una lingua ruvida che mi toccavano il viso, ma non sentii nulla. Attila era davvero andato via per sempre. Un paio di lacrime mi bagnarono il volto, e sperai che Attila avesse trovato la pace. Mi vestii ed uscii con la precisa intenzione di adottare un altro gatto. Ma un pensiero mi bloccò mentre stavo per uscire dalla camera, per quanto irrazionale potesse essere.
Mi chiusi la porta alle spalle e questa volta, per sicurezza, diedi anche due mandate.
Beppe Carta
– Lì dentro.
Il ragazzo incappucciato mi indicò una stanza dalle pareti verde chiaro. Entrai. Non ebbi il tempo di rendermi conto di dove fossi che venni assalito alle spalle e gettato su una sedia. Non riuscii a dire una parola. Mi prese i polsi e me li strattonò con forza dietro la schiena. Uno strappo sulla spalla destra. Mi sfuggì un lamento, non ci fu reazione. Chi era dietro di me (una persona? Due? Di più?) lavorava febbrilmente attorno alle mie braccia. Sentivo un fruscio, di tessuto che si muoveva in maniera precisa e incessante. Qualcosa strofinava su qualcos’altro con rumore morbido e ritmico. Pian piano avvertii le braccia sempre più rigide, strette allo schienale della sedia in un abbraccio innaturale. La spalla destra bruciava.
– Mi fa male!
Silenzio. Il tessuto si raccontava con il suo ritmo meccanico. Trattenni il fiato pur di riuscire a udire il minimo indizio. Rimasero alle orecchie le mie pulsazioni convulse e il fruscio. Percepii la temperatura della stanza aumentare. Mi sembrava di essere stato gettato in una pentola di acqua bollente e, come le aragoste, lentamente stavo cuocendo vivo. Rimasi in attesa per interminabili secondi. Il bruciore nella parte destra del busto cresceva e mi resi conto di non riuscire più a muovere i polsi.
– Basta!
Urlai ma senza rumore. Mi resi conto di non sentire gli arti superiori, come se le braccia si fossero staccate dal mio corpo. Chiusi gli occhi e rimasi in ascolto. Il rumore proseguiva cadenzante, entrava in testa e risuonava, sempre più intenso. Da quanto tempo ero inchiodato lì? Provai ad aprire gli occhi. Nebbia. Ero bendato? I sensi si stavano esaurendo. L’aridità della mia bocca sembrava un ricordo lontano. Si può spegnere il proprio cervello? La tensione nello stomaco contratto si gonfiava, come l’eccitazione di una festa con troppe persone in un locale stretto e lungo. Si può spegnere il proprio cervello? Mi concentrai sui padiglioni auricolari: tesi come dita disperate alla ricerca di briciole di realtà, puntati nell’aria silente. Qualcosa era cambiato. Al tocco vellutato si aggiunse una voce umana, un lamento. No, un richiamo. Sussurrato… il mio nome, come un’eco o un sogno. Feci in tempo ad accorgermi che il mio battito era fuori controllo. La gola, una fessura sempre più angusta. Il peso di una tonnellata sul petto. Aprii la bocca o almeno questa era la mia intenzione. Ancora il fruscio e il mio nome, intrecciati in modo regolare. Poi un tonfo e un fischio. I timpani schizzati dalle tempie.

Di colpo spalancai gli occhi. Riconobbi il soffitto del soggiorno, le venature del parquet nocciola e il sapore sulla lingua del TLX. Spalancai la bocca e mi trascinai verso l’uscio. Le chiavi erano ancora nella toppa. La casa maledetta mi aveva ingannato, di nuovo.

Mi chiusi la porta alle spalle e questa volta, per sicurezza, diedi anche due mandate.
Marika De Sandoli

Quando si apre una porta, si chiude un portone!
Cosa? Ah, non era così? Forse il contrario?
Vabbè, ma che differenza ci sarà mai: Portone, Porta. Porta piccola? Portina!
E invece cos’è la sPortina?
Portiere?
Porto!
Ogni volta che entro in quella casa per recuperare qualche oggetto che mi sono volontariamente dimenticata, mi riempio di confusione.
I miei occhi si appannano, così come la mia testa.
L’ultima volta, sulla credenza vicino allo specchio mi è apparsa sua mamma con la Sportina pesante e sorridente, ripiena di parmigiana di melanzane, di raccomandazioni, di cipolle stufate, di parole, di pane fatto in casa, di attenzioni.
Nel bagno, andando ad asciugare ed a pulire il viso dal segno di matita oramai sbaffato, sono apparsi invece tanta acqua nella vasca, il ristorante sul Porto ed il tavolino apparecchiato appositamente con vista mare, barche, pontili. Sono apparse anche tante risate e tante portate, ma che volteggiavano un poco nelle nuvolette di condensa che si formano spesso in un bagno e quando cala la sera.
Prima di uscire, mi sono fermata davanti alla porta. Uno spiritello pettegolo, che stranamente mi sembrava somigliante al Portiere del Palazzo, si è poggiato sulla mia spalla destra e poi, facendomi un solletico fastidioso sul collo toccandomi i capelli si è spostato velocemente sulla spalla sinistra, sussurrandomi nonsense del tipo “Berfamo secchiate d’acqua terrazzo di Fotini – NO-T-TE” o “Pazzo piano IV pianoforte – NO-T-TE”. Ed alla fine, guardandomi a quel punto negli occhi, “Amica 1 ore 06 Lunedì – Amica 2 ore 15 Mercoledì – Amica 3 ore 17 Venerdì – NO-A-MIC-HE”.
Attonita, ho cercato di picchiarlo con l’ultimo oggetto recuperato, non so se un libro, un mestolo od un orecchino. So per certo, invece, che il tentativo non ha avuto successo.
E che la restante matita ne ha approfittato per spandersi su ogni parte del viso.
Da bambina mi nascondevo in una stanza della casa, una stanza per gli alimenti e gli oggetti raramente usati, abbastanza grande e pulita da potermi mettere a sedere per terra tra gli scatoloni e giocare.
Anche lì si affacciavano dei folletti: chi era divertente, chi spocchioso, chi elegante. Con loro rivivevo momenti accaduti, ma più o meno tutti si divertivano mostrandomi in particolare le mie debolezze.
Volavano a volte i sassi che mi aveva lanciato il compagno bullo oppure le risate di derisione perché ero caduta durante la recita.
Anche quel 10 aprile mi nascosi lì dentro, ma non avevo voglia di essere presa in giro. Il papà non sarebbe più venuto a chiamarmi dolcemente, a scherzare girando la chiave nella toppa dicendo “Non si apre più!” e a tirarmi su fino alle sue spalle, baciandomi sulle mie gote cicciotte.
Eppure sentii anche quel giorno dei grandi stridii: “Debolee” – “alla bimba manca il papà ahahahah” – “è andato via perché non ti voleva beneee”.
Decisi che quella volta sarebbe stata l’ultima. Né nascondersi in uno stanzino né ritrovarsi confusa ed appannata poteva essere di aiuto alla mia crescita.
Era il momento. Di lasciare indietro la sofferenza, i ricordi, i sentimenti, le anime, le paure.
Mi venne per un attimo il dubbio che forse non sarebbe stato così facile respingerli ed escluderli.
Mi chiusi la porta alle spalle e questa volta, per sicurezza, diedi anche due mandate.
Marianna Palmerini
Stavo scuotendo la tovaglia dalla parte del cortile quando accadde. Lo vidi, un luccichio rapido tra le ruote delle biciclette appoggiate al muro. Fu un attimo ma sufficiente per riconoscerlo.

Un brivido mi corse lungo la schiena. Mi girai lentamente verso la cucina. Piatti e posate mi osservavano muti. Lo scolapasta cercava di nascondersi sotto lo strofinaccio. La caffettiera, già sui fornelli, faceva la vaga. "Ehi moca" "Sì?" "Quello che credo di aver visto non è ciò che ho visto, vero?" "Nnnnn.... Ssss.. Puoi ripetete la domanda?"

Corsi in camera da letto, accesi la luce, i cuscini sbadigliarono cercando rifugio sotto il piumone, i comodini, sentendosi osservati, cercarono di farsi piccoli piccoli. "Dov'è???" urlai a mobili e suppellettili. "Come ha fatto ad uscire?" chiesi allo scendiletto stropicciato. "Tu devi saperne qualcosa, deve essere passato da te, parla!"
Il tappetino di corda dell'Ikea, comprato ai tempi dell'università, mi guardò con le frange che tremavano, "Non urlare, ti prego, lo sai che mi annodo tutto, quando lo fai" piagnucolò. "Hai ragione" presi un respiro profondo, "non devo urlare, non devo perdere la calma, soprattutto con te, che sei un povero innocente ma ti prego, cerca di essere sincero. Luigi è scappato?" "Dipende dai punti di vista, noi gli abbiamo detto di non farlo ma lui ha specificato che non scappava mica, tu stamattina non avevi chiuso la porta a chiave e quindi, inconsciamente, lo invitavi a fare una passeggiatina..."

Mi lanciai giù per le scale. Era tutta colpa mia, non avrei mai dovuto prenderlo. Al negozio, un mese prima, me l'avevano praticamente regalato ed era ovvio: un orologio che non segna mai l'ora giusta chi l'avrebbe mai voluto? Ma io mi ero lasciata conquistare. "Mi chiamo Luigi" mi aveva sussurrato dagli scaffali e a me era parso perfetto per casa mia. Peccato che non è che non segnasse l'ora giusta per qualche irrimediabile malfunzionamento, povera anima meccanica, ma perché era troppo testardo per dar soddisfazione, sveglia ribelle. Mi ero messa in casa un orologio anarchico e, ora, anche fuggitivo!

Arrivata giù, approfittando delle prime ombre della sera, setacciai il cortile un centimetro alla volta: dietro le biciclette, sotto i gerani della signora del piano terra, vicino ai cassonetti dell'immondizia. Avevo quasi perso la speranza quando sentii un ticchettio vicino ai garage. "Luigi?" bisbigliai per non farmi sentire dai miei vicini. Un timido "Tic" mi rispose. "Luigiiiiii?". Un piccolo "Toc" riecheggiò in alto. "Luigi dove sei???" "Quassù, tic toc" mi chiamò la sua vocina metallica. Camminai lungo il muro, mi misi in punta di piedi e lo trovai, in una nicchia del muro, ostaggio di una coppia di piccioni. "Aiutami" mi chiese lo schizzinoso a cui, improvvisamente, la vita sul mio pulitissimo comodino doveva sembrare un sogno. "Suona" gli risposi. "Cosa?" "Suona la sveglia" "Ma non è l'ora giusta" "Come se ti fosse mai importato!"
Così Luigi si diede coraggio e carica, e trillò, trillò con tutta la forza dei suoi ingranaggi. I piccioni volarono via terrorizzati, la vecchietta del primo piano si affacciò “Che succede laggiù?”, io feci un salto e, veloce com'ero venuta, corsi in casa con il fuggitivo nel mio abbraccio. "Non puoi andartene in giro, è pericoloso, se ti trovano io finisco alla neuro e tutti voi dal robivecchi” dissi a Luigi appena rientrata ma lui aveva subito dimenticato lo spavento preso e già raccontava agli altri la sua avventura. Avventura in cui era un coraggioso conquistatore di orologi digitali e metronomi, e di piccioni non vi era neanche l'ombra. Bugiardo con le lancette e con le parole.

La mattina seguente tutto sembrava tornato come prima: la moca gorgheggiava, i cucchiaini tintinnavano e la tv russava. Ma l'ultima cosa che sentii, un attimo prima di uscire, fu Luigi che diceva allo scendiletto "La prossima volta ti porto con me, eh?"

Mi chiusi la porta alle spalle e questa volta, per sicurezza, diedi anche due mandate.
Jane Pancrazia Cole

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