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Vacanze Roma amicizia

È tempo di arrendersi, oggi si torna a casa. 

Queste ferie verranno ricordate per il gran caldo, i primi piatti spettacolari e le numerose persone incontrate e riincontrate. Nel giro di una decina di giorni ha, infatti, avuto luogo il mio tour. Un po' Regina Elisabetta, un po' zia rimbambita d'America, ho avuto la fortuna di incastrare viaggi e facce amiche. 

Tutto ha avuto inizio il 14 agosto con una gita a Milano per incontrare Silvia, detta Sissi, fedele compagna di Erasmus. Chi ha letto Pancrazia in Berlin se la ricorderà. 

Sissi ha scelto l'ondata di caldo del secolo per trascorrere qualche giorno nella ridente città meneghina, sede dei suoi ricordi universitari più cari. 
Era almeno 4 anni che non ci vedevamo. E, pur rischiando la morte per sublimazione, questa occasione di rincontrarci era troppo ghiotta per rinunciarvi. 
Io ero con Marito, lei con tutta la sua truppa: Mauri, compagno storico che conosco da quando conosco lei, ossia più di 20 anni, e i loro 4 figli. A proposito, Sissi a 20 anni schifava i bambini. No, non è che non le piacessero, li schifava proprio. E niente, ora ne ha 4, questa cosa mi farà ridere per sempre. 

Sissi, per il resto, è una certezza. Non è cambiata. Perché si può crescere e si deve, ci mancherebbe, ma senza perdere il meglio di noi. Evviva Sissi! 

Pochi giorni dopo, arrivati a Roma, ha avuto luogo un altro storico incontro tra Ex Erasmus. 
Alla Garbatella, di fronte una carbonara memorabile, Renée ed io abbiamo ammorbato di chiacchiere e ricordi berlinesi i compagni, di entrambe, e il figlio, suo. 
Sì, Renée, un'altra delle famose Comari. Se non lo avete ancora fatto, dovreste proprio leggere Pancrazia in Berlin.

Lei ed io non ci vedevamo più o meno da una decina d'anni ma, nel frattempo, ci hanno tenuto unite il senso dell'umorismo e la passione per lo stalking social di ex (fidanzati e amici), senza vergogna e senza prendersi troppo sul serio. Ricordate: ciò non fa di noi due pazze persecutrici, no no, fa di voi dei tipi noiosissimi se non lo capite! 

Renée si scoccia se le ricordo che lei è sempre stata la mamma di tutti, poi si gira verso il suo bambino "stai dritto con la schiena", lo redarguisce. E allora vedi che ho ragione io? 

Ma non di solo Erasmus si è dipinta la mia estate. Sempre a Roma, Michela ed io ci siamo finalmente incontrate. 

Michela ed io ci conosciamo via internet, tramite blog e social, da un tempo indefinito pericolosamente superiore ai 10 anni. In questo periodo ci siamo lette, scritte, e viste su Skype mille milioni di volte, essendo lei, tra le altre cose, una delle frequentatrici più fedeli dei miei laboratori di scrittura online. 

Anni e anni di amicizia senza mai vedersi dal vivo, fino all'altra mattina, in cui ci siamo godute una colazione assieme. È incredibile quanto sia normale incontrare per la prima volta una persona che, in realtà, si conosce da molto tempo. Si fa quasi fatica a ricordare che, no, in effetti non ci si era mai viste prima. 

Per l'occasione eravamo noi e i nostri rispettivi consorti. Il mio già in essere, il suo (il mitico Gian) tra pochissimo. A proposito, evviva i futuri sposi! 

Il tour si è concluso a Lucca. Dove abbiamo rivisto per un aperitivo e una cena Lucia, Andrea e Leo. Quelli, tra tutti, che - tra Torino, Lucca e Firenze - abbiamo visto più spesso in questi anni. 

Lucia ed io leggiamo da una vita i nostri rispettivi blog. Tramite Lucia ho conosciuto Andrea, suo marito, che con la storia della sua famiglia di blog ne potrebbe riempire 30. E tramite loro 2 ho conosciuto il piccolo Leo, per cui, data la capacità di fare amicizia e l'invidiabile proprietà di linguaggio, prevedo un futuro da organizzatore di eventi, showman o profeta di una nuova religione. Solo il futuro potrà dirlo. 

"Non si può dire che io non conosca gente interessante" ho fatto notare, orgogliosa, a mio marito. 
"Già e hanno tutti voglia di vederti, pare incr... " 
"Mi sento generosa e scelgo di ignorare il tuo tono sorpreso. Ma tornati a casa potrei, per sbaglio, aizzarti contro il cane"
C'è una cosa che non ho mai raccontato del mio Erasmus.
Stonava troppo con il resto della storia. Non c'erano risate. Non c'era follia. In fondo, non c'era neanche Berlino.

Un giorno d'autunno Elisa, la mia amica romana, ed io incrociammo altre due ragazze italiane.
Io non conoscevo loro. Loro non conoscevano me. E, dopo quel giorno, non le avrei più riviste.
Una era di Milano, ricordo solo questo.

"Hai sentito che sta succedendo a Torino?" chiese questa ad Elisa.
"No, cosa?"
"Un disastro. Un'alluvione. Hanno interrotto l'autostrada con Milano. Torino è isolata", disse con una certa morbosa eccitazione.

-Torino è isolata- mi rimbombò nella testa.

La mia città era sola.
La mia famiglia si trovava immersa nell'acqua fino al collo.
E io, come una stronza, stavo a Berlino.

Non dissi una parola. Non so che faccia feci. Ma riuscii a zittire l'eccitata milanese che, guardandomi, si bloccò.
"Tu di dove sei?" mi chiese infine, quasi sottovoce.
"Torino"
"Vedrai che... vedrai che si aggiusta tutto"

-Si aggiusta tutto-
Non avevo internet, non avevo la televisione. Torino affogava e io non ne sapevo un cazzo. Corsi a chiamare i miei e, il giorno dopo, feci incetta di tutti i giornali italiani che riuscii a trovare.

Volevo sapere. Dovevo sapere. 

Seppi.
La mia famiglia stava bene. La mia città un po' meno.
Quei giorni furono gli unici in cui desiderai tornare indietro. Desiderai stare con i piedi nel fango e l'acqua fino al collo. 


"Va tutto bene, stai tranquilla. Goditi quest'esperienza e smettila di preoccuparti!" mi dicevano da casa.
Io un po' gli credevo e po' no.
Non parlai d'altro per giorni, nella costante ricerca di chetare il senso di colpa dato dal privilegio, dalla sicurezza, dall'ingiustizia del caso che mi voleva salva.

L'emergenza in città durò poco. Il mio Erasmus proseguii come sapete.

Ma ogni volta che in Italia la catastrofe si ripete. E si ripete sempre. Io penso a quel giorno.
Penso a quelli sotto l'acqua.
E penso anche a quelli all'asciutto. Quelli fortunati. Quelli stronzi che, però, preferirebbero stare con i piedi nel fango. Costretti, come sono, ad osservare impotenti la propria terra che annega. Senza neanche l'amara consolazione di poterla vegliare.

Questo è solo un piccolo, insignificante, privilegiato punto di vista. Ma è il mio. L'unico che possa raccontare.
(Prima parte.)

Quando si è una ragazza di poco più di vent'anni si ha il guardaroba pieno di vestiti adatti ad ogni stagione.
Attenzione, non sto parlando di abiti nati per andare bene con ogni temperatura. Ciò sarebbe saggio e utile, e non è assolutamente questo il caso!
Parlo di frivoli abitini sottoveste che le ventenni si ostinano a portare in qualunque periodo dell'anno: per il veglione di san Silvestro come per il falò di ferragosto. Indifferentemente.
E' inverno? Ci si piazzano sotto dei collant ed un paio di stivali. E' estate? Li si abbina con dei sandali.

Se poi sei una ragazzetta inglese ubriaca i sandali te li metti pure a gennaio, ma questo è un altro discorso.

Io e le mie degne amiche, in quanto ventenni, quel lontano 31 dicembre del 2000, a 1200 metri d'altitudine, tra le vette innevate piemontesi, scegliemmo un abbigliamento che sarebbe stato perfetto anche per un aperitivo ai Caraibi.
A nostra difesa voglio solo ricordare che la festa si sarebbe dovuta tenere in un caldo appartamento. Teoricamente un giaccone ed un paio di scarpe chiuse sarebbero stati più che sufficienti per superare il tragitto auto-portone. Ma così, ovviamente, non fu.

Gnocche più che mai raggiungemmo tronfie l'ingresso del party. Suonammo il campanello, l'uscio si aprì, e in un attimo fummo travolte da un branco di piumini, sciarpe, doposci e cappellacci di lana.
"Evviva: andiamo ad aspettare la mezzanotte sulle piste!", vociò gaio l'informe gruppone adeguatamente abbigliato mentre guadagnava l'uscita.
"...", rispose pietrificato il manipolo di minigonne fascianti e mocassini appena lucidati. Perché, a ben guardare, anche gli esponenti maschili della comitiva avevano optato per un abbigliamento leggero ed urbano.

Dopo interminabili minuti trascorsi sulle scale a guardarci con gli occhi persi. Il più "coraggioso", il più incosciente, il montone capo del gregge di pecoredilanaprivate cui appartenevo, si erse nel suo metro e 60 cm scarsi di altezza e, forte del calore infusogli dal limoncello bevuto prima di uscire, esclamò con voce stentorea: "Non vorremo mica farci ridere dietro da questi? Non vorremo mica fare la figura dei soliti fighetti di città? Andiamo anche noi sulle piste!", urlò precipitandosi verso l'uscita.
E noi, idioti, dietro a lui.

Ovviamente io, che mi metto il golfino anche a luglio, cercai di oppormi.
"Ma guardate che moriremo di freddo."
"Quante storie! Dovremo resistere solo pochi minuti."
Pochi minuti.
Pochi minuti un par di balle.
Stazionammo sulle piste da sci dalle 11 all'una di notte.
Voi avete idea di cosa voglia dire stare due ore vestiti da sera in piedi su una pista da sci? Io sì.
Voi avete idea di cosa voglia dire avere talmente freddo da desiderare di darsi fuoco? Io sì.
Voi avete idea di cosa si provi ad avere un vestitino leggero con sopra un cappottino altrettanto leggero e, per sbaglio, finire in mezzo ad una battaglia di palle di neve? Io no. Ma la mia amica C sì, e ancora va in analisi per superare il trauma!
Fu un vero miracolo che nessuno di noi perse per il freddo qualche falange. Io, a distanza di anni, ancora mi conto con orgoglio e commozione le mie dieci cazzutissime dita dei piedi che, nonostante l'ipotermia acuta e contro ogni legge fisica, quella notte scelsero di rimanermi fedelmente attaccate.

Grazie care, approfitto di questa occasione per ringraziarvi pubblicamente.

Furono le 2 ore più lunghe della mia vita e, ad onor del vero, non solo della mia. Ben presto lo sconforto ci travolse tutti e, con l'ultimo briciolo di orgoglio e folle irrazionalità rimastoci, decidemmo di non ripresentarci davanti all'uscio dei simpatici montanari che ci avevano tirato un pacco sì grande e sì gelido. E prendemmo a vagare sconsolati per il paese, cercando riparo in ogni locale, ogni baretto, ogni pertugio dell'amena località sciistica.
Ormai eravamo in giro e il capodanno l'avremmo festeggiato così: a membro di segugio!

Ogni posto era strapieno e noi eravamo troppi: mentre il primo riusciva a raggiungere il bar e ordinare qualcosa, due terzi del gruppo erano ancora fuori a spingere, spintonare, e cercare con poca fortuna di entrare.
Nel disperato ed inutile tentativo di scaldarci ci attaccammo ad ogni forma di alcool disponibile. Qualcuno vi dirà di avermi vista addirittura sfondare a spallate la vetrina di una profumeria e scolarmi una confezione da mezzo litro di Just Cavalli Parfume. Costui mente sapendo di mentire.
Era Chanel numero 5. Sono una donna di classe io.
La mia amica S, fino a quel momento astemia, in stato di evidente alterazione alcolica, mi costrinse ad accompagnarla in bagno. Nel senso che la dovetti proprio accompagnare fino a dentro il cesso, e tenerle la manina mentre lei, colta da un attacco di ridarella, cercava di mantenere l'equilibrio su una turca e non farsela sulle scarpe.
Che bei momenti.

Alla fine tornammo stremati, bagnati e incacchiati come bisce nel nostro monolocale. Ci insaccammo come cacciatorini nei sacchi a pelo e perdemmo i sensi su ogni superficie utile: letti, divani, tappeti, vasche da bagno e tavoli da pranzo.

Io e il fedele amico O scappammo a valle appena si fece giorno. Senza guardarci indietro. E con Michele Zarrillo e la sua stracacchio di rosa blu a farci da colonna sonora.
Tornai dalla Germania per passare le vacanze di Natale in terra natia.
Trascorsi il 24 ed il 25 nel caldo soffocante abbraccio parentale.
Azzardai un 26 davanti ad un piatto di tagliatelle al ragù insieme al mio ex. Per dimostrare che potevamo essere amici, che l'andare all'estero mi aveva fortificata, che non soffrivo più per lui e che, mentre l'infingardo guardava con rinnovato interesse la nuova cosmopolita versione di me, io sarei stata in grado di mantenere il controllo e non buttargli le braccia al collo nel tentativo di sedurlo oppure strangolarlo.

Infine venne San Silvestro. Una festa in montagna con una trentina di amici a cui piaceva sia la vecchia sia la nuova versione di me. E che non si offendevano quando dicevo loro di voler ripartire ma, anzi, programmavano gite per venirmi a trovare e fare un poco di sana bisboccia crucca assieme.
Tanti mesi di lontananza però avevo finito col farmi dimenticare o sottovalutare qualche insignificante particolare riguardo al simpatico gruppo con cui solitamente mi accompagnavo.
Avevo dimenticato, per esempio, che alcuni di loro fossero degli emeriti deficienti con cui uscivo solo in quanto amici di amici di amici di amici.
Avevo dimenticato che S e B, fino a poco tempo prima amiche morbosamente indivisibili, ora non si parlavano più e avevano trasformato la comitiva in una sabauda versione della Guerra Fredda, con tanto di muro di Berlino a forma di gianduiotto.
Avevo dimenticato che E non sarebbe venuta alla festa perché P si era innamorato di un'altra, e lei stava ancora a raccogliere i cocci. Che, per quanto volessi bene a P, l'avrei volentieri preso a mazzate per tutto il male che aveva fatto alla povera E.
Avevo dimenticato persino che il mio caro amico O, con cui mi trovai a fare tutto il viaggio in macchina dalla pianura fino alla vetta, avesse come indiscusso mito musicale Michele Zarrillo. E, infatti, mi toccarono due ore filate di "Una rosa blu" senza soluzione di continuità.

Ma tutto ciò non aveva importanza. A Capodanno le cose vecchie e brutte si buttano dalla finestra e si tengono solo quelle belle che ci accompagneranno per tutto l'anno nuovo.
Tutto si supera.
Tutto o quasi.

Ognuno di noi aveva generosamente contribuito a costituire un importante tesoretto da spendere in salatini, bevande varie e soprattutto alcolici. Tanti alcolici.
Arrivati tra i monti, mentre io ed altre giovani nonne Papere esibivamo orgogliose i dolci preparati per l'occasione, mi accorsi che tutto quello zuccheroso ben di Dio avremmo dovuto mandarlo giù con l'acqua del rubinetto. Sul tavolo, infatti, facevano bella mostra di sé solo una bottiglia striminzita di Limoncello ed una di Vodka scadente. Nient'altro.

"E la birra?"
"Non l'abbiamo presa"
"Davvero un colpo basso per una che è appena arrivata dalla Germania. Vabbè, vi perdono. Ma il resto della roba da bere dov'è?"
"Da nessuna parte: è tutto qua."
"State scherzando, vero? Ma che c'avete fatto con tutti quei soldi?"
E a quel punto gli occhi dei quattro mentecatti responsabili dell'approvvigionamento brillarono di lucida follia. "Guarda che meraviglia", mi dissero orgogliosi, esibendo una vera e propria santa barbara: petardi, tric e trac, bombe a mano e altre fesserie simili.

Partiamo dal presupposto che io odio i cosiddetti "botti" e che quindi magari non sarò proprio obiettiva, ma a voi sembrerebbe normale per una spesa di 30 persone comprare solo un pacchetto di patatine sbriciolate, appena un litro e mezzo di bevande, ma una quantità tale di petardi da far venir giù una valanga?

Superato lo shock della spesa e della mia conseguente crisi isterica, tutti noi, giovani e belli, procedemmo alla vestizione.
La festa vera e propria si sarebbe tenuta in un appartamento poco distante e molto più grosso, dove ci aspettava un altro gruppo di amici di amici di amici di amici di amici.

Continua...
Il breve ritorno in Italia in occasione delle feste natalizie rappresenta un importante spartiacque per lo studente Erasmus tipo. Seppur per pochi giorni, si torna a casa. Si torna da mamma e papà. Si torna a godere di tutti gli inutili e intossicanti comfort a cui si è dovuto e potuto facilmente rinunciare pochi mesi prima.

Io lasciai Berlino una fredda e grigia mattina, salutata dai miei internazionali amici con la passione e lo struggimento che si dovrebbe a un giovane soldato diretto al fronte. Partii con il cuore pieno di malinconia e lo zaino vuoto per poter fare incetta di generi di prima necessità: la mozzarella di bufala, il parmigiano reggiano, cd, libri e qualche top sexy. Il minimo indispensabile per rendere più confortevole la seconda parte della mia permanenza in terra germanica. Del resto era solo quello che importava.
I parenti mi aspettavano in Italia e non vedevano l'ora di riabbracciarmi ma io, in quanto studente Erasmus tipo, me ne fregavo altamente. Desideravo solo che i giorni italici volassero via in fretta per poter tornare alla mia estera esistenza.

Atterrata a Torino provai fastidio per tutto: colori, odori e rumori. L'accento torinese? Orribile! Gli abiti italiani? Tristi! Ed il profumo del Curry Wurst? Dov'era finito il profumo del Curry Wurst?
Appena le porte automatiche del gate si aprirono venni travolta dall'amorevole e stritolante abbraccio dei miei familiari. Io all'inizio reagii riottosa e infastidita da tanto latino e chiassoso amore ma, appena tornata a casa, mi abituai rapidamente al trattamento di riguardo che mi era riservato. Divano, televisione, patatine, il tutto condito dal lusso di non aver nulla di urgente di cui occuparmi. Un rientro nell'accogliente bozzolo dell'infanzia prolungata. Il benvenuto all'emigrante che torna a casa, alla figliola prodiga, alla ragazzotta che in Germania non mangia abbastanza, "guarda come ti sei fatta magra, ci pensa mamma tua adesso a te".

E' strano però, come pochi mesi lontani dalla mia patria, mi facessero sentire un'aliena. Ero partita a settembre e a dicembre amici e parenti mi sembravano estranei e vagamente fuori di testa. MammaCole su tutti.
"Cristina ha fatto questo", diceva, "Cristina ha fatto quest'altro. Cristina è tanto brava."
Tutto ciò mentre io allibita mi chiedevo chi cacchio fosse questa Cristina. Pur avendo una famiglia numerosa, anche indagando fino alla terza generazione di cugini, a me di "Cristina" non ne risultava neanche una.
"Scusa, madre cara, non per essere indiscreta, ma sta Cristina chi cazz è?"
"Come non lo sai? Dove hai vissuto finora? E' una delle concorrenti del Grande Fratello!"
Avevo lasciato una nazione più o meno sana e, al mio ritorno, mi trovai in mezzo ad un branco di teledipendenti completamente folli.
Persino l'alternativa AmicaMeri sentì il bisogno di avvertirmi: "Guarda che qua sono diventati tutti pazzi. L'unico modo per sopravvivere è lasciarsi assimilare. Ormai esiste un solo argomento di conversazione: il Grande Fratello. Pure se non lo guardi ne devi conoscere le dinamiche, altrimenti sei destinato alla solitudine e all'isolamento sociale."
"Come quando in prima superiore eri un Paria se non guardavi Beverly Hills 90210?"
"Peggio. Molto peggio."

Ma io mi sentivo troppo internazionale e cool per occuparmi di tali facezie. L'inizio della fine del mio paese come l'avevo conosciuto fino ad allora non era più importante della mia nuova pettinatura da tedesca, del mio nuovo appartamento a Prenzlauerberg, e dei messaggi dei miei nuovi amici Erasmi che, ritornati in patria anch'essi, ululavano alla luna in attesa del ritorno all'amata Berlino.

Passai il Natale a scofanarmi panettoni e cannoli siciliani, e ad imboscarmi in valigia pandori da esportare oltre confine. Poi mi preparai per il capodanno: una notte di divertimento tra i monti piemontesi insieme a una ventina di cari vecchi amici. O almeno così credevo.

Continua...

N.d.A: questo post era nato per raccontarvi del mio Capodanno durante l'Erasmus ma l'introduzione mi ha un po' preso la mano e così, per il tanto atteso San Silvestro del 2001, dovrete ancora avere pazienza.
No, non l'ho mica fatto perché sono sadica. O forse sì?

N.d.A(2): nel frattempo sappiate che su SettePerUno è stata pubblicata la seconda parte del mio racconto "151°". L'avete letta? Che state aspettando?

L'11 marzo scorso in Giappone si è verificato un terremoto terribile, seguito da uno Tsunami devastante.
Questo lo sapete tutti.
In seguito al sisma più di una centrale nucleare ha riportato danni importanti.
Sicuramente sapete anche questo.

Non avevo ancora trattato la recente catastrofe perché, dal punto di vista dell'informazione, non avevo niente di originale o esclusivo da offrirvi e, dal punto di vista umano, ero in silenziosa e scaramantica attesa di una buona notizia da condividere.

Una calamità di tale portata è difficile da immaginare, il numero di morti e dispersi può sopraffare. E così, credo che faccia parte della natura umana distogliere lo sguardo dal disastro nella sua interezza e concentrarsi sul particolare.
Con la testa ed il cuore si può cercare di essere vicini ad un popolo, ma è sempre una vicinanza artefatta e quasi irreale. Loro poi sono così lontani. Noi siamo qua e loro là, dall'altra parte del mondo.
Istintivamente il pensiero si allontana dal popolo nipponico nella sua globalità, fatta di volti sfocati e stranieri, e si focalizza su visi e luoghi a noi familiari. Nelle ultime due settimane cittadini di tutto il mondo hanno cercato di rintracciare amici e parenti che si trovavano nel paese dei ciliegi. Hanno chiesto notizie e rassicurazioni.

Io, ad esempio, mi sono immediatamente attivata per contattare lui: Fumiki. Il mio compagno di Erasmus. L'uomo che confezionò per me meravigliosi origami che ancora conservo gelosamente. Il pazzo che a colazione mangiava carbonara fredda. Il samurai che si sobbarcò il mio trasloco senza bisogno che glielo chiedessi e senza possibilità alcuna che potessi rifiutare il suo aiuto.

Anche se non avevo sue notizie da anni, l' ho cercato prima sul vecchio indirizzo e poi ho setacciato la rete in cerca di un suo nuovo recapito.
Ho spedito due email ed ho atteso.
Non lo sentivo da tantissimo tempo, non lo vedevo da un'eternità, ma volevo saperlo al sicuro con le sue stramberie ed il suo sorriso timido, con la sua austerità e le sue camice improbabili, con i suoi capelli neri come l'inchiostro ed il suo cappottone color cammello.

I giorni passavano e l'ansia cresceva.
Magari non legge spesso la sua posta, mi dicevo.
Ma sta bene, deve stare bene per forza, cercavo di autoconvincermi.
Ho aspettato pazientemente.
Ho pregato anche se non credo più da tempo, ma si sa che in certi momenti uno spera di essersi sbagliato e che lassù ci sia davvero qualcuno in ascolto.
Ho ricordato i nostri discorsi su Buddha e cristianesimo, Italia e Giappone, storia e attualità. Ho pensato a quanto eravamo giovani e pieni di progetti per il futuro. E mi sono un po' commossa.
Ho continuato ad aspettare e sperare.
Anche se non dovesse rispondermi non significa mica niente, mi ripetevo, possono esserci mille buone ragioni.

Stasera, dopo quasi due settimane è arrivata finalmente l'email che tanto attendevo.
Ed ora sono felice come una bambina a Natale.

Forse il Giappone non è dall'altra parte del mondo, forse le distanze non contano, forse non importa neanche per quanto tempo non si rimanga in contatto. Molte persone entrano nella nostra vita e sono destinate a rimanerci per sempre. Molte persone distanti appartengono comunque alla stessa enorme comunità.
Fumiki non lo sa, ma anche lui fa parte della storia della famiglia Cole, altrimenti non si spiegherebbe perché Mamma, Papà, sorellaCole e Ciccio stasera abbiano gioito per lui e perché io ora stia condividendo questa bella notizia con tutti voi.

Poche righe dedicate al mio amico ritrovato ed alla sua famiglia, felice di saperli al sicuro.
Poche righe dedicate ad un popolo ed una terra che stanno là, dall'altra parte del mondo, dove sorge il sole ed inizia il giorno.
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