Una collaborazione simile era già stata realizzata alla fine dello scorso anno. Ve ne ricordate? Eccola qua! Questa volta cambia il tipo di racconto e la disegnatrice, ma non lo spirito di divertimento
Quella casa, dimenticata dal Signore ed ignorata da tutti da quasi un anno, era il posto perfetto per noi. Metà degli scalini erano marci, i vetri alle finestre rotti e, dentro i pochi mobili rimasti, si potevano trovare tante bestie diverse: ragni grossi come pagnotte, qualche lepre di passaggio e parecchi sorci.
A noi un posto così pareva meglio del paradiso.
Ci passavamo le giornate cacciando gli animali e sfidandoci per vedere chi fosse il più coraggioso e chi il più fifone. Gino, ovviamente, perdeva sempre e gli toccava continuamente pagare pegno. Tra nocchini dietro gli orecchi, scappellotti, pizzicotti e schiaffoni, quel poveraccio era sempre tutto un livido ma non si arrendeva mai, perché era pure capoccione oltre che piscialletto.
Una volta lo chiudemmo da solo là dentro e ci mettemmo a fare i versi degli animali, e chiamarlo con certe vocette maligne che avrebbero fatto cacare addosso anche un uomo fatto e finito. Lui si fiondò fuori pochi minuti dopo, bianco come un morto e con i capelli dritti in testa.
“L’ho vista! L’ho vista!”, urlava con la faccia da pazzo.
“Che hai visto?”
“Ines!”
“Chi?”
“Lo giuro: era appesa co li occhi aperti e la lingua de fora.”
“Tu si tutto scemo, quella sta sotto terra da mo. Che fa? Vene fora giusto per vedere lo brutto muso tuo?”
“Allora era nu spirito. Ma io l’ho vista, so sicuro!”
“E che faceva?”
“Me guardava fisso.”
“E nun te diceva gnente?”
“Gnente.”
“Nun t’ha detto manco: ma guarda che sfortuna, ho lassatu lu dimonio pe incontrare lu piscialletto?” lo prese in giro quella carogna di Teo. E noi, più carogne ancora, tutti giù a rotolarci in terra dal ridere.
Gino, oltre a prendersi uno spavento che quasi ci rimaneva secco, dovette anche pagare pegno: un calcione nel di dietro da parte di tutti. Tutti tranne me.
“Adelì, tocca a te”, mi chiamò Maso ed io mi sforzai di mettere su la migliore faccetta d’angiolo, “No, pe sto giro passo. S’è già preso tanta paura che nun c’ho voglia de farci pure male, poveretto a lui.”
Gli altri mi guardarono sorpresi ma non dissero nulla. I maschi si credono tanto furbi ma in fondo sono anime semplici, e non sono capaci di capire quando ad una femmina gira qualche idea particolare per la capoccia.
Era da un po’ che volevo togliermi una curiosità. Quindi, ritornando a casa, aspettai di restare sola con l’amico mio e nel bosco gli dissi: “Oggi nun t’ho tirato nu calcio anche se t’avrebbe fatto bene.”
“Grazie, Adelì.”
“Ma grazie de che? Nun me basta mica nu grazie.”
“No? E che voi? Mica c’ho gnente io.”
“Qualcosa veramente ce l’hai.”
“Cosa?”
“Prima me devi promette che nun dici gnente a li altri.”
“Te lo prometto.”
“Se, mica me fido cuscì. Me lo devi giurare croce su lu core.”
“Te lo giuro croce su lu core. Nun dico gnente a nisciunu manco se me schiacceno li diti o m’attaccheno pe li orecchi.”
“E se te mannano dietro lu cane rognoso della Pazza o te affogano nellu fiume?”
“Cacchio, Adelì, nun lo so mica se te la posso promette na cosa cuscì.”
“Nun si obbligato, pensavo de poterme fidare, ma piscialletto si e piscialletto rimani.”
“E va bene. Te lo prometto, croce su lu core: nun parlo manco se mi schiacceno li diti, mi attaccheno pe li orecchi, me mannano dietro lu cane rognoso o m’affogano nellu fiume. Mo me lo dici che voi?”
“Sì, famme vedere l’uccellu.”
“Ma che si matta?”
“Me l’hai promesso.”
“Col cavolo! T’ho promesso che nun dico gnente mica che te faccio vedere l’uccellu.”
“O l’uccellu o nu calcio.”
“E che c’entra?”
“Nun t’ho fatto pagà pegno pe vedere l’uccellu tuo, ma se fai tanto lu prezioso allora almeno lu calcione te lo devi pigliare. Queste so le regole, è tanto semplice.”
Io ero minuta, ma scalciavo peggio di un mulo e così Gino ci pensò un attimo e poi si abbassò i pantaloncini.
“Tu c’hai la capoccia tutta stramba. Ecco. Guarda.”
Fu una vera delusione.
“Tutto qua?”
“E che t’aspettavi?”
“E’ piccolo.”
“Ma che ne sai tu? E’ giusto pe l’età mia.”
“Si sicuro? A me me pare proprio piccoletto.”
“Tu de uccelli nun ce capisci gnente! Carlo dice che noi Fiorucci ce l’abbiamo tutti grosso e pure lu mio diventerà bello grande.”
“Fratello tuo diceva pure che lui faceva all’ammore co Annarella, ma lei nun se lo filava proprio. Quello ne dice tante de fesserie.”
“E che c’entra questo mo? E poi facevano pe davvero all’ammore, ma Annarella nun lo voleva far sapere alli genitori sua.”
“Comunque è brutto.”
“Carlo nun è brutto.”
“Ma che me frega de Carlo. E’ l’uccellu tuo che è brutto!”
“Ma che dici? E’ n’uccellu. Li uccelli c’hanno tutti sta faccia qua.”
Erano mesi che avevo questa curiosità. Abitavo in campagna ed avevo visto quello degli animali ma pensavo che quello degli uomini fosse diverso. Un poco speciale. Ed invece non era speciale proprio per niente.
Mi sembrava impossibile che un coso così potesse fare tanta differenza e che a babbo mio bastasse quel dito mollo per comportarsi da padrone. Certo che, nel caso suo, anche due mani grosse come badili lo aiutavano parecchio.
“Ora che t’ho fatto vedere lu mio, tu devi farme vedere la tua.”
“La mia che?”
“Lo sai. Quella cosa là.”
“Te si scemo! Nun ce penso proprio!”
“Però nun è giusto, tu lu mio l’hai visto.”
“E capirai che bello spettacolo!”
“E dai, solo nu secondo. Che te costa?”
Eravamo così presi dalle chiacchiere nostre che non lo sentimmo manco arrivare. Non facemmo caso né ai passi pesanti né al puzzo. Spuntò alle spalle mie e Gino scappò via coi calzoncini ancora calati e l’uccello accartocciato dalla paura.
“C’ho la figlia mignotta!” urlò babbo mio, caricandomi sulle spalle come un sacco di patate.
Mi trascinò fino allo stradone, gridando e sbatacchiandomi di qua e di là come un capretto, tanto che io finì pure per vomitargli sulle scarpe.
In mezzo alla gente che ci guardava schifata lui continuava a sputare veleno, “baldracca come tutte le femmine”, “chi t’ha imparato certi giochetti? Quella madonnina infilzata de sorella tua?”, “ce penso io a raddrizzarte!” diceva, riempiendomi di vergogna e mortificazione.
Arrivati a casa si scatenò il finimondo e, tra insulti e cinghiate, quella fu la serata peggiore della vita mia.
Babbo tirava colpi alla cieca: “Volevi fare nu servizietto all’amico tuo?”
Mamma si metteva in mezzo, “Lasciala stare che cuscì me l’ammazzi”, e ne prendeva pure lei.
Lucia cercava di tirarmi via, “Basta! Basta!”, e rimediava spinte e ceffoni.
Io mi coprivo la capoccia con le mano e aspettavo solo che tutto finisse, “Nun ho fatto gnente! Nun ho fatto gnente! Lo giuro!”, gridavo.
Ma più rispondevo e più lui s’incazzava: “Anche lu coraggio de parlare c’hai?”
Dopo un tempo infinito di quel manicomio il babbo mi buttò nella stalla, “Tra le vacche devi dormire, é quello lu posto tuo!”, e se ne tornò a bere con gli amichetti suoi, pacifico come se non fosse successo niente.
Passai quella notte sulla paglia, stretta tra la mamma che bestemmiava dalla rabbia e Lucia che piangeva per lo spavento. Tutte e tre rannicchiate sotto una coperta sola a cercare il caldo delle bestie come il bambinello nella capanna.
All’alba arrivò il maresciallo.
Il babbo e quegli ubriaconi degli amici suoi non avevano trovato niente di meglio che andare a far danni nella casa di Ines.
Mentre lui pisciava contro il muro, una pietra si era staccata dall’alto e gli era finita dritta sulla capoccia. Gli altri avevano urlato e chiesto aiuto, il farmacista era sceso di corsa ma non aveva potuto far niente.
Osvaldo Carretta era morto di colpo, senza un lamento, con le brache calate, le scarpe sporche di piscio e vomito, e la testa aperta come un cocomero.
Ad Ines il babbo non era mai piaciuto.
Continua...
Prologo - 1 - 2 -3-4-5-6
A noi un posto così pareva meglio del paradiso.
Ci passavamo le giornate cacciando gli animali e sfidandoci per vedere chi fosse il più coraggioso e chi il più fifone. Gino, ovviamente, perdeva sempre e gli toccava continuamente pagare pegno. Tra nocchini dietro gli orecchi, scappellotti, pizzicotti e schiaffoni, quel poveraccio era sempre tutto un livido ma non si arrendeva mai, perché era pure capoccione oltre che piscialletto.
Una volta lo chiudemmo da solo là dentro e ci mettemmo a fare i versi degli animali, e chiamarlo con certe vocette maligne che avrebbero fatto cacare addosso anche un uomo fatto e finito. Lui si fiondò fuori pochi minuti dopo, bianco come un morto e con i capelli dritti in testa.
“L’ho vista! L’ho vista!”, urlava con la faccia da pazzo.
“Che hai visto?”
“Ines!”
“Chi?”
“Lo giuro: era appesa co li occhi aperti e la lingua de fora.”
“Tu si tutto scemo, quella sta sotto terra da mo. Che fa? Vene fora giusto per vedere lo brutto muso tuo?”
“Allora era nu spirito. Ma io l’ho vista, so sicuro!”
“E che faceva?”
“Me guardava fisso.”
“E nun te diceva gnente?”
“Gnente.”
“Nun t’ha detto manco: ma guarda che sfortuna, ho lassatu lu dimonio pe incontrare lu piscialletto?” lo prese in giro quella carogna di Teo. E noi, più carogne ancora, tutti giù a rotolarci in terra dal ridere.
Gino, oltre a prendersi uno spavento che quasi ci rimaneva secco, dovette anche pagare pegno: un calcione nel di dietro da parte di tutti. Tutti tranne me.
“Adelì, tocca a te”, mi chiamò Maso ed io mi sforzai di mettere su la migliore faccetta d’angiolo, “No, pe sto giro passo. S’è già preso tanta paura che nun c’ho voglia de farci pure male, poveretto a lui.”
Gli altri mi guardarono sorpresi ma non dissero nulla. I maschi si credono tanto furbi ma in fondo sono anime semplici, e non sono capaci di capire quando ad una femmina gira qualche idea particolare per la capoccia.
Era da un po’ che volevo togliermi una curiosità. Quindi, ritornando a casa, aspettai di restare sola con l’amico mio e nel bosco gli dissi: “Oggi nun t’ho tirato nu calcio anche se t’avrebbe fatto bene.”
“Grazie, Adelì.”
“Ma grazie de che? Nun me basta mica nu grazie.”
“No? E che voi? Mica c’ho gnente io.”
“Qualcosa veramente ce l’hai.”
“Cosa?”
“Prima me devi promette che nun dici gnente a li altri.”
“Te lo prometto.”
“Se, mica me fido cuscì. Me lo devi giurare croce su lu core.”
“Te lo giuro croce su lu core. Nun dico gnente a nisciunu manco se me schiacceno li diti o m’attaccheno pe li orecchi.”
“E se te mannano dietro lu cane rognoso della Pazza o te affogano nellu fiume?”
“Cacchio, Adelì, nun lo so mica se te la posso promette na cosa cuscì.”
“Nun si obbligato, pensavo de poterme fidare, ma piscialletto si e piscialletto rimani.”
“E va bene. Te lo prometto, croce su lu core: nun parlo manco se mi schiacceno li diti, mi attaccheno pe li orecchi, me mannano dietro lu cane rognoso o m’affogano nellu fiume. Mo me lo dici che voi?”
“Sì, famme vedere l’uccellu.”
“Ma che si matta?”
“Me l’hai promesso.”
“Col cavolo! T’ho promesso che nun dico gnente mica che te faccio vedere l’uccellu.”
“O l’uccellu o nu calcio.”
“E che c’entra?”
“Nun t’ho fatto pagà pegno pe vedere l’uccellu tuo, ma se fai tanto lu prezioso allora almeno lu calcione te lo devi pigliare. Queste so le regole, è tanto semplice.”
Io ero minuta, ma scalciavo peggio di un mulo e così Gino ci pensò un attimo e poi si abbassò i pantaloncini.
“Tu c’hai la capoccia tutta stramba. Ecco. Guarda.”
Fu una vera delusione.
“Tutto qua?”
“E che t’aspettavi?”
“E’ piccolo.”
“Ma che ne sai tu? E’ giusto pe l’età mia.”
“Si sicuro? A me me pare proprio piccoletto.”
“Tu de uccelli nun ce capisci gnente! Carlo dice che noi Fiorucci ce l’abbiamo tutti grosso e pure lu mio diventerà bello grande.”
“Fratello tuo diceva pure che lui faceva all’ammore co Annarella, ma lei nun se lo filava proprio. Quello ne dice tante de fesserie.”
“E che c’entra questo mo? E poi facevano pe davvero all’ammore, ma Annarella nun lo voleva far sapere alli genitori sua.”
“Comunque è brutto.”
“Carlo nun è brutto.”
“Ma che me frega de Carlo. E’ l’uccellu tuo che è brutto!”
“Ma che dici? E’ n’uccellu. Li uccelli c’hanno tutti sta faccia qua.”
Erano mesi che avevo questa curiosità. Abitavo in campagna ed avevo visto quello degli animali ma pensavo che quello degli uomini fosse diverso. Un poco speciale. Ed invece non era speciale proprio per niente.
Mi sembrava impossibile che un coso così potesse fare tanta differenza e che a babbo mio bastasse quel dito mollo per comportarsi da padrone. Certo che, nel caso suo, anche due mani grosse come badili lo aiutavano parecchio.
“Ora che t’ho fatto vedere lu mio, tu devi farme vedere la tua.”
“La mia che?”
“Lo sai. Quella cosa là.”
“Te si scemo! Nun ce penso proprio!”
“Però nun è giusto, tu lu mio l’hai visto.”
“E capirai che bello spettacolo!”
“E dai, solo nu secondo. Che te costa?”
Eravamo così presi dalle chiacchiere nostre che non lo sentimmo manco arrivare. Non facemmo caso né ai passi pesanti né al puzzo. Spuntò alle spalle mie e Gino scappò via coi calzoncini ancora calati e l’uccello accartocciato dalla paura.
“C’ho la figlia mignotta!” urlò babbo mio, caricandomi sulle spalle come un sacco di patate.
Mi trascinò fino allo stradone, gridando e sbatacchiandomi di qua e di là come un capretto, tanto che io finì pure per vomitargli sulle scarpe.
In mezzo alla gente che ci guardava schifata lui continuava a sputare veleno, “baldracca come tutte le femmine”, “chi t’ha imparato certi giochetti? Quella madonnina infilzata de sorella tua?”, “ce penso io a raddrizzarte!” diceva, riempiendomi di vergogna e mortificazione.
Arrivati a casa si scatenò il finimondo e, tra insulti e cinghiate, quella fu la serata peggiore della vita mia.
Babbo tirava colpi alla cieca: “Volevi fare nu servizietto all’amico tuo?”
Mamma si metteva in mezzo, “Lasciala stare che cuscì me l’ammazzi”, e ne prendeva pure lei.
Lucia cercava di tirarmi via, “Basta! Basta!”, e rimediava spinte e ceffoni.
Io mi coprivo la capoccia con le mano e aspettavo solo che tutto finisse, “Nun ho fatto gnente! Nun ho fatto gnente! Lo giuro!”, gridavo.
Ma più rispondevo e più lui s’incazzava: “Anche lu coraggio de parlare c’hai?”
Dopo un tempo infinito di quel manicomio il babbo mi buttò nella stalla, “Tra le vacche devi dormire, é quello lu posto tuo!”, e se ne tornò a bere con gli amichetti suoi, pacifico come se non fosse successo niente.
Passai quella notte sulla paglia, stretta tra la mamma che bestemmiava dalla rabbia e Lucia che piangeva per lo spavento. Tutte e tre rannicchiate sotto una coperta sola a cercare il caldo delle bestie come il bambinello nella capanna.
All’alba arrivò il maresciallo.
Il babbo e quegli ubriaconi degli amici suoi non avevano trovato niente di meglio che andare a far danni nella casa di Ines.
Mentre lui pisciava contro il muro, una pietra si era staccata dall’alto e gli era finita dritta sulla capoccia. Gli altri avevano urlato e chiesto aiuto, il farmacista era sceso di corsa ma non aveva potuto far niente.
Osvaldo Carretta era morto di colpo, senza un lamento, con le brache calate, le scarpe sporche di piscio e vomito, e la testa aperta come un cocomero.
Ad Ines il babbo non era mai piaciuto.
Continua...
Prologo - 1 - 2 -3-4-5-6
Facce da Palco: And the winner is... (cronaca in differita della finale)
giovedì, maggio 22, 2014
L'ultima serata. L'ultimo parcheggio da cercare. L'ultimo momento imbarazzante sul palco. Gli ultimi abbracci. Le ultime emozioni. Facce da Palco è un'avventura che ho iniziato per caso, in uno dei periodi più assurdi
La brutta esperienza dai Parise fece stringere le chiappe a tutti gli amici miei.
Il babbo mio aveva le mani particolarmente calde, ma non è che quelli degli altri scherzassero.
A quei tempi i figli si crescevano a pane e bastone e non era mica come adesso che, se un bambino combina qualche fesseria, i genitori lo credono sempre un angiolo pure se sulla capoccia porta le corna ed attaccata al sedere c’ha la coda. Una volta le prendevi metà dal maestro e l’altra metà a casa, metà dal parroco e l’altra metà a casa, metà dal vicino e l’altra metà a casa. E spesso, pure se non avevi fatto niente, le prendevi comunque. Giusto per star sereni.
Se i genitori di Augusto si fossero presentati a casa di qualcuno di noi per chiedere soddisfazione, non ci sarebbero bastate le lacrime per tutte le mazzate che avremmo preso.
Per un poco smettemmo di fregare la frutta e fare i prepotenti in giro, e ci dedicammo solo alla casa abbandonata dietro al mulino: il posto perfetto per starcene per i fatti nostri, non metterci nei guai ed essere lasciati in pace dai grandi.
I paesani erano tutti cacasotto superstiziosi e si credevano che quelle quattro mura fossero segnate dal demonio. La maggior parte di loro faceva di tutto per non passarci neanche davanti e, se proprio era costretta a prendere quella strada, si faceva il segno della croce e poi sputava a terra.
Ma a me quel posto non faceva paura, anzi. Lo ricordavo ancora quand’era pieno di vita e soprattutto mi ricordavo la padrona: la levatrice che ci aveva fatto nascere tutti quanti, pure me e Lucia.
Ines era allegra e sorridente, e m’era sempre piaciuta tanto. Perché era amica della mamma, anche se a noi tutto il paese ci guardava con lo schifo negli occhi, perché non si faceva problemi a prendere a male parole il babbo, “che lu diavolo te se pigli!” gli diceva, e pure perché una volta, trovandomi a rubarle le noci, invece di urlare o arrabbiarsi, mi aveva fatto entrare in casa e mi aveva offerto il latte con il miele. Che io una cosa buona come quel latte lì non l’ho più assaggiata. Da quel giorno, se la passavo a trovare, lei mi dava qualche frutto per riempirmi la pancia e poi raccontava a me ed ai bambini suoi delle storie bellissime. Ci faceva sedere tutti e tre a terra, andava ad aprire la cassapanca dove teneva il corredo e da lì tirava fuori un libro con la copertina dura, se lo metteva sui ginocchi con attenzione, manco fosse un tesoro, e cominciava a leggere. Il più piccolo dei figli suoi di solito cadeva subito addormentato. Quello più grandicello, invece, si stufava in fretta e dopo poco andava fuori a giocare col fango. Solo io rimanevo immobile con la schiena dritta e la bocca aperta a bermi tutte quelle parole, pure quelle difficili che non capivo ma che mi piacevano tanto. A quell’epoca avevo sempre la terra che mi bruciava sotto i piedi, ma Ines con le storie sue mi toglieva la voglia di scappare e m’imbambolava come una magia.
La favola che mi piaceva di più era quella di una fornaia “nera come un tizzone e brutta più del peccato mortale”, ma col cuore allegro e la risata sempre in tasca, “Tizzoncino fa l’uovo - dicevan le vicine”. Lei faceva innamorare persino quell’antipatico del Reuccio che all’inizio le sputava addosso ma poi si prendeva una gran botta e cominciava a chiamarla “Reginotta dell’anima mia!”. Quella storia lì me la sarò fatta leggere almeno dieci volte e l’ho imparata così bene che negli anni l’ho raccontata precisa precisa a tutti: Annamaria prima, e figli e nipoti poi.
Altro che principessine frignone o rimbambite, Tizzoncino era capace di mettersele tutte sotto i piedi ste signorine delicate. “Spera di sole, spera di sole, sarai Regina se Dio vuole!” e Tizzoncino regina ci diventava veramente.
Ines era bruttarella, con le braccia grosse e pelose come quelle di un uomo e un bel nasone a patata, ma non se ne dispiaceva: “Nun sarò bella ma ad Alfredo mio piaccio eccome: cinque anni che simo sposati e nun riesce ancora a tenerse li mano allu posto sua”, diceva e poi rideva, rideva forte. La sua risata era come una caciotta fresca: il benvenuto perfetto per i bambini appena venuti al mondo.
Io le volevo bene e da grande sognavo di diventare come lei, con una bella famiglia, un marito gentile ed una lingua tagliente e sfacciata per dire sempre tutto quello che mi passava per la testa.
Ma purtroppo le cose brutte capitano spesso anche alle persone buone ed Ines, nel giro di un anno, perse tutto, pure la risata e la voglia di vivere. Per colpa di una caduta da cavallo e del morbillo, le morirono prima il marito e poi i due figli. La poveretta, dopo aver seppellito anche il secondo dei bambini suoi, smise di occuparsi di se stessa e della propria casa. Venivano giù capelli e mattoni, si formavano crepe ai muri e rughe profonde intorno agli occhi suoi.
Dieci mesi dopo l’ultimo lutto i vicini, preoccupati per il puzzo ed il silenzio, andarono a bussarle. Batterono e chiamarono a lungo ma lei non rispose. Allora si fece avanti il più grande dei fratelli Casotti, quello che chiamavano “lu mulo”, e lui, a spallate e capocciate, buttò giù la porta.
Ines se ne stava lì, triste e sola, appesa al soffitto.
Quel cuore secco di Don Felicino non volle farle il funerale in chiesa e la fece seppellire in un angolino buio del campo santo, lontana dalla famiglia sua e nascosta come una delinquente. Ma, alla faccia del parroco, i fiori su quella lapide senza nome non sono mancati mai. Glieli hanno sempre portati e glieli portano ancora tutte le mamme del paese. E’ diventata una tradizione, un omaggio ed anche una scaramanzia per allontanare la malasorte, che se stai preoccupata per i figli tuoi ci pensa Ines a buttarci un occhio.
Lei non può essere finita all’inferno, come dicevano le quattro vecchiacce della Chiesa, io non ci credo. L’amica mia c’aveva il cuore troppo buono. Secondo me è volata dritta in cielo e la Vergine, appena l’ha vista, l’è andata incontro e le ha baciato prima una guancia e poi pure l’altra. E da quel momento Ines se ne sta là a raccontare favole ai bimbi che devono ancora nascere o a quelli che se ne sono già tornati indietro. La sera poi va dalla famiglia sua, Alfredo se l’abbraccia stretta e le dice in un orecchio “Reginotta, reginotta dell’anima mia” e lei ride, ride forte.
Può venire pure il vescovo in persona a dirmi che non è possibile, che quello che ha fatto Ines è un peccato troppo grave per essere perdonato, ma a me questa idea non me la toglie nessuno dalla capoccia. Lei non solo se ne sta bella bella in paradiso, ma occupa pure un posto importante. Perché almeno dall’altra parte un poco di giustizia ci deve stare.
Continua...
N.d.A. la storia di Tizzoncino, il cui titolo originale è “Spera di sole”, fu scritta da Luigi Capuana(1839-1915) ed è contenuta nella raccolta “Si conta e si racconta”(Muglia Editore, 1913; Pellicanolibri, 1985)
Prologo - 1 - 2 -3-4-5
Il babbo mio aveva le mani particolarmente calde, ma non è che quelli degli altri scherzassero.
A quei tempi i figli si crescevano a pane e bastone e non era mica come adesso che, se un bambino combina qualche fesseria, i genitori lo credono sempre un angiolo pure se sulla capoccia porta le corna ed attaccata al sedere c’ha la coda. Una volta le prendevi metà dal maestro e l’altra metà a casa, metà dal parroco e l’altra metà a casa, metà dal vicino e l’altra metà a casa. E spesso, pure se non avevi fatto niente, le prendevi comunque. Giusto per star sereni.
Se i genitori di Augusto si fossero presentati a casa di qualcuno di noi per chiedere soddisfazione, non ci sarebbero bastate le lacrime per tutte le mazzate che avremmo preso.
Per un poco smettemmo di fregare la frutta e fare i prepotenti in giro, e ci dedicammo solo alla casa abbandonata dietro al mulino: il posto perfetto per starcene per i fatti nostri, non metterci nei guai ed essere lasciati in pace dai grandi.
I paesani erano tutti cacasotto superstiziosi e si credevano che quelle quattro mura fossero segnate dal demonio. La maggior parte di loro faceva di tutto per non passarci neanche davanti e, se proprio era costretta a prendere quella strada, si faceva il segno della croce e poi sputava a terra.
Ma a me quel posto non faceva paura, anzi. Lo ricordavo ancora quand’era pieno di vita e soprattutto mi ricordavo la padrona: la levatrice che ci aveva fatto nascere tutti quanti, pure me e Lucia.
Ines era allegra e sorridente, e m’era sempre piaciuta tanto. Perché era amica della mamma, anche se a noi tutto il paese ci guardava con lo schifo negli occhi, perché non si faceva problemi a prendere a male parole il babbo, “che lu diavolo te se pigli!” gli diceva, e pure perché una volta, trovandomi a rubarle le noci, invece di urlare o arrabbiarsi, mi aveva fatto entrare in casa e mi aveva offerto il latte con il miele. Che io una cosa buona come quel latte lì non l’ho più assaggiata. Da quel giorno, se la passavo a trovare, lei mi dava qualche frutto per riempirmi la pancia e poi raccontava a me ed ai bambini suoi delle storie bellissime. Ci faceva sedere tutti e tre a terra, andava ad aprire la cassapanca dove teneva il corredo e da lì tirava fuori un libro con la copertina dura, se lo metteva sui ginocchi con attenzione, manco fosse un tesoro, e cominciava a leggere. Il più piccolo dei figli suoi di solito cadeva subito addormentato. Quello più grandicello, invece, si stufava in fretta e dopo poco andava fuori a giocare col fango. Solo io rimanevo immobile con la schiena dritta e la bocca aperta a bermi tutte quelle parole, pure quelle difficili che non capivo ma che mi piacevano tanto. A quell’epoca avevo sempre la terra che mi bruciava sotto i piedi, ma Ines con le storie sue mi toglieva la voglia di scappare e m’imbambolava come una magia.
La favola che mi piaceva di più era quella di una fornaia “nera come un tizzone e brutta più del peccato mortale”, ma col cuore allegro e la risata sempre in tasca, “Tizzoncino fa l’uovo - dicevan le vicine”. Lei faceva innamorare persino quell’antipatico del Reuccio che all’inizio le sputava addosso ma poi si prendeva una gran botta e cominciava a chiamarla “Reginotta dell’anima mia!”. Quella storia lì me la sarò fatta leggere almeno dieci volte e l’ho imparata così bene che negli anni l’ho raccontata precisa precisa a tutti: Annamaria prima, e figli e nipoti poi.
Altro che principessine frignone o rimbambite, Tizzoncino era capace di mettersele tutte sotto i piedi ste signorine delicate. “Spera di sole, spera di sole, sarai Regina se Dio vuole!” e Tizzoncino regina ci diventava veramente.
Ines era bruttarella, con le braccia grosse e pelose come quelle di un uomo e un bel nasone a patata, ma non se ne dispiaceva: “Nun sarò bella ma ad Alfredo mio piaccio eccome: cinque anni che simo sposati e nun riesce ancora a tenerse li mano allu posto sua”, diceva e poi rideva, rideva forte. La sua risata era come una caciotta fresca: il benvenuto perfetto per i bambini appena venuti al mondo.
Io le volevo bene e da grande sognavo di diventare come lei, con una bella famiglia, un marito gentile ed una lingua tagliente e sfacciata per dire sempre tutto quello che mi passava per la testa.
Ma purtroppo le cose brutte capitano spesso anche alle persone buone ed Ines, nel giro di un anno, perse tutto, pure la risata e la voglia di vivere. Per colpa di una caduta da cavallo e del morbillo, le morirono prima il marito e poi i due figli. La poveretta, dopo aver seppellito anche il secondo dei bambini suoi, smise di occuparsi di se stessa e della propria casa. Venivano giù capelli e mattoni, si formavano crepe ai muri e rughe profonde intorno agli occhi suoi.
Dieci mesi dopo l’ultimo lutto i vicini, preoccupati per il puzzo ed il silenzio, andarono a bussarle. Batterono e chiamarono a lungo ma lei non rispose. Allora si fece avanti il più grande dei fratelli Casotti, quello che chiamavano “lu mulo”, e lui, a spallate e capocciate, buttò giù la porta.
Ines se ne stava lì, triste e sola, appesa al soffitto.
Quel cuore secco di Don Felicino non volle farle il funerale in chiesa e la fece seppellire in un angolino buio del campo santo, lontana dalla famiglia sua e nascosta come una delinquente. Ma, alla faccia del parroco, i fiori su quella lapide senza nome non sono mancati mai. Glieli hanno sempre portati e glieli portano ancora tutte le mamme del paese. E’ diventata una tradizione, un omaggio ed anche una scaramanzia per allontanare la malasorte, che se stai preoccupata per i figli tuoi ci pensa Ines a buttarci un occhio.
Lei non può essere finita all’inferno, come dicevano le quattro vecchiacce della Chiesa, io non ci credo. L’amica mia c’aveva il cuore troppo buono. Secondo me è volata dritta in cielo e la Vergine, appena l’ha vista, l’è andata incontro e le ha baciato prima una guancia e poi pure l’altra. E da quel momento Ines se ne sta là a raccontare favole ai bimbi che devono ancora nascere o a quelli che se ne sono già tornati indietro. La sera poi va dalla famiglia sua, Alfredo se l’abbraccia stretta e le dice in un orecchio “Reginotta, reginotta dell’anima mia” e lei ride, ride forte.
Può venire pure il vescovo in persona a dirmi che non è possibile, che quello che ha fatto Ines è un peccato troppo grave per essere perdonato, ma a me questa idea non me la toglie nessuno dalla capoccia. Lei non solo se ne sta bella bella in paradiso, ma occupa pure un posto importante. Perché almeno dall’altra parte un poco di giustizia ci deve stare.
Continua...
N.d.A. la storia di Tizzoncino, il cui titolo originale è “Spera di sole”, fu scritta da Luigi Capuana(1839-1915) ed è contenuta nella raccolta “Si conta e si racconta”(Muglia Editore, 1913; Pellicanolibri, 1985)
Prologo - 1 - 2 -3-4-5
Humans Torino
martedì, maggio 20, 2014
"Della pagina dedicata a Torino dovresti occupartene tu" "Ok. Ma la parte scritta dovresti curarla tu" E' nata così, un po' per scherzo e un po' sul serio, l'idea di realizzare Humans Torino.
Lucia mi trovò in lacrime per la paura, il dolore e l’umiliazione.
“Che t’è successo?”, mi chiese.
“Lo odio!”
“Chi?”
“E’ nu bugiardo. Faceva finta, faceva solo finta! Guarda che m’ha fatto”, le dissi mostrando la mia chiappa viola.
“Chi è stato? Uno de li amici tua? Te l’ho detto de nun girà co quei furfanti.”
“Ma no! Loro che c’entrano? E’ stato quello storpio dei Parise.”
“Ma chi? Augusto? Com’ha fatto? Nun era malato?”
“Sta guarendo, sto muso de cacca.”
“E viene in giro co voi?”
“No, mica cammina. Sta fermo come nu baccalà su quella sedia. Io pensavo che dormiva e me so avvicinata. Ma quella faccia da porco faceva finta e m’ha fregata.”
“Ma dov’eravate?”
“E mo che c’entra?”
“Dimme dov’eravate. Subito.”
“Nellu cortile suo.”
“E tu che ce facevi nellu cortile dei Parise?”
“Gnente, passavamo de lì.”
“Siete andati a dar fastidio a nu ragazzino malato fino a casa sua?”
“No.”
“No?”
“No. Forse. Sì”, confessai di fronte agli occhi stretti stretti di Lucia, “ma nun abbiamo fatto gnente de male. Era solo nu gioco. Nun sono riuscita manco a pigliarlo.”
La sorella mia mi guardava con la faccia severa. Non mi faceva paura. Peggio: mi faceva sentire più piccola e brutta di una zecca.
“De chi è stata sta bell’idea?”
“Che t’importa?”
“Nun sarà mica stata tua?”
“No”, dissi fissandomi i piedi zozzi.
“No?”
“No! Io glel’ho detto alli amici mia che ste cose nun se fanno. Che Gesù ce guarda dallu cielo e se siamo cattivi ce manda colli diavuli. Ma loro non m’hanno voluto ascoltà.”
“Davvero me credi tanto fessa? Tu alli diavuli te li magni, altroché! Annamo subito a chiedere scusa.”
“Scusa? A quello? Ma nun l’hai visto che m’ha fatto?”
“Sì e ha fatto pure bene. Cuscì la prossima volta ce pensi prima de fare ste furbate. Tutte e due le chiappe te doveva prendere!”
“Ma te da che parte stai? Io là nun ce torno.”
“Tu ce torni!”
“No!”
“Sì!”
“No! Tu nun me poi dare ordini!”
“Sì che posso!”
“No! Nun sei mica la mamma tu! Nun sei nisciunu! Nisciunu!”
A Lucia vennero gli occhi lucidi di lacrime. A me, però, non m’importava niente. Io, anzi, ero pure contenta. Contenta di farle dispiacere. Se neanche lei stava mai dalla parte mia allora a me non restava proprio nessuno. Se ne potevano andare tutti a quel paese. Pure lei.
“Vabbè. Come voi te”, disse la sorella mia cercando di stare calma, “ce ne stiamo qua bone bone ad aspettare che vengono li genitori sua.”
“E che ce vengono a fare qua?”
“Che ce vengono a fare? A lamentarsi co la mamma e co lu babbo.”
“E perché?”
“Ma tu davvero fai? Hai dato fastidio a lu figlio loro, sei entrata nella casa loro e, se te conosco abbastanza, c’hai anche fregato la frutta. Quelli staranno come pazzi dalla rabbia.”
Guardai Lucia con gli occhi e la bocca spalancati e poi mi afflosciai a terra, piccola e bianca come uno straccetto: “Lu babbo sta volta m’ammazza”, sussurrai.
“Lu babbo c’ammazza a tutte e tre.”
Era vero. Lui di solito non faceva differenze, quando iniziava a menare, menava alla cieca, non faceva eccezioni o favoritismi. Era molto democratico.
Credo di non aver mai avuto tanta paura in tutta la vita mia. Mi veniva da vomitare e pure da farmela addosso. Avevo voglia di scappare lontano o di scavare una buca e nascondermici dentro.
Lucia mi prese per mano ed assieme, senza dire una parola, marciammo come soldatini fino al cancello dei Parise. In realtà marciò solo lei, dritta e fiera, mentre io venni tirata dietro di peso.
Alla porta si presentò una donna bella ed elegante, con gli occhi grandi e neri e le ciglia piegate all’insù. I suoi abiti erano puliti e stirati ed alle orecchie portava dei piccoli cerchietti con dei granati. Una vera sciccheria. Una roba da signori.
“Prego?” disse, guardandoci come si guarda un cane che ti piscia davanti casa.
“Bongiorno signora Parise. Ce dispiace tanto de disturbarve”, iniziò la sorella mia tutta seria.
“Bongiorno.”
“Io so Lucia Carretta e questa è Adelina.”
“Giorno”, dissi io controvoglia.
“Lo so benissimo chi siete”, rispose la Signora con la faccia tirata e la bocca stretta a culo di gallina.
“Simo venute a chiedere scusa”, continuò Lucia e, senza prendere mai fiato, come un bimbo che recita la poesia di Natale, buttò fuori tutto il discorsetto che s’era preparata: “Adelina è piccina e se lascia trascinare da quelli più grandi de lei ma nun è cattiva e mo è molto dispiaciuta. Nun voleva fare male allu figliolo vostro. Vero Adelì?”
“Eh? Sì, sì. Certo. So stati li amici mia. E’ tutta colpa de quelli. Io nun so mica cattiva, nun so. Io ce lo so che Gesù ce guarda.”
“Mo chiedi scusa, Adelì.”
“Che? E perché? Nun è mica stata colpa mia!”
“Adelì, chiedi scusa e basta!”
Ma io avevo la capoccia dura e non volevo piegarmi neanche un po’.
“Guarda che, se nun chiedi scusa, te do nu pizzico che te faccio piagne.”
Quella col sedere viola ero io, pensavo, Augusto in fondo non aveva neanche un graffio e poi faceva la bella vita in una casa da signori con una mamma tutta profumata. Perché dovevo pure chiedergli scusa?
“Adelì, simo venute apposta.”
“E infatti io nun ce volevo venì.”
“O chiedi scusa o ce ne torniamo de corsa alla casa, che lu babbo c’aspetta.”
La paura del babbo mio era sempre un buon modo per sciogliermi la lingua e Lucia lo sapeva bene, perché non era solo buona ma pure furba.
“Scusateme”, mi decisi finalmente a bofonchiare con la vocetta bassa e gli occhi appiccicati a terra.
La signora Parise avrà avuto di certo una gran voglia di mettermi sulle ginocchia e farmi diventare il culo nero a forza di pacche, che se non ce l’aveva prima di sicuro le era venuta dopo tutto questo teatrino, ma da signora qual’era mantenne la calma e rivolta a Lucia disse: “Scuse accettate, ma avverti li genitori tua che stasera io e lu maritu mio veniamo a farve visita. Sta bimbetta c’ha bisogno de na bella raddrizzata.”
“No!” rispose allarmata Lucia.
“No?”
“No, volevo dire, no, nun ve dovete disturbare. Ve prometto che d’ora in poi ce penserò io a lei.”
“Nun te preoccupare, nessun disturbo.”
“Signora Parise, ve prego, site gentile. Nun mettiamo in mezzo lu babbo. Gli diamo già tanti pensieri cuscì. Ve prego”, chiese Lucia, con la voce che iniziava a tremare.
La madre di Augusto guardò la sorella mia, una ragazzina che provava a fare la grande, e poi guardò me, una bambina brutta e cattiva come un vecchio cane randagio ma spaventata e piccola come un cuccioletto con gli occhi ancora chiusi. E finalmente sembrò capire. Le rughe della fronte le si appiattirono tutte e lo sguardo le s’intenerì un poco. Dovevamo fare proprio tanta pena, e quella donna doveva avere il cuore proprio tanto grande se riuscì ad addolcirsi anche con me: il mostro che le aveva appena preso a sassate il figlio malato.
“Forse c’hai ragione tu, nun c’è bisogno de disturbare li tua. Ma tieni d’occhio sta peste, me raccomanno.”
“Certo. Lo farò. Ve ringrazio, site davvero molto gentile. Lu Signore ve renderà merito.”
“Mo che ce siamo chiarite, perché nun venite tutte e due dentro a bere nu poco de latte caldo?”
Io mi feci avanti tutta contenta, che da piccola c’avevo più stomaco che coscienza, ma Lucia m’acchiappò per il collo: “No, ve ringraziamo molto signora Parise, ma la mamma e lu babbo ce stanno aspettando alla casa. E se facciamo tardi stanno in pensiero.”
“C’hai ragione. Sei proprio na signorina pe bene. La sorella tua è fortunata ad averce almeno a te.”
Pochi minuti dopo, rientrando a casa, sentimmo le solite urla dalla cucina e ci mettemmo buone buone nella stalla ad aspettare. Quella volta non corsi via, ma rimasi con la testa appoggiata sulle gambe di Lucia a frignare.
“Tranquilla, Adelì, ce sto qua io co te, nun si sola.”
“Potevamo bere lu latte dei Parise, però” dissi tirando su col naso.
“Ma c’hai sempre fame tu?”
“Lu latte caldo è bono. Quelli so ricchi e magari c’hanno pure lu miele.”
“Sei senza fondo e pure senza vergogna. Che c’entriamo noi in quella casa?”
“C’ha invitato la padrona.”
“Ce stava facendo la carità.”
“E che male c’è?”
“Li pezzenti prendono la carità.”
“E noi che simo? Nun simo pezzenti?”
“Guai a te se te fai sentire da mamma a dire na cosa cuscì. Noi simo na famiglia pe bene e nun c’abbiamo bisogno della carità de nisciunu.”
Sbuffai ma rimasi accucciata contro Lucia che mi cullava come fossi una creatura.
Fuori iniziò a piovere e ci riparammo dal freddo mettendoci sotto la paglia. Le nostre bestie ci guardavano con i loro grandi occhi tristi. Forse non eravamo pezzenti ma eravamo sicuramente disgraziate. Talmente disgraziate da far pena pure a due vacche.
Continua...
Prologo - 1 - 2 -3-4
“Che t’è successo?”, mi chiese.
“Lo odio!”
“Chi?”
“E’ nu bugiardo. Faceva finta, faceva solo finta! Guarda che m’ha fatto”, le dissi mostrando la mia chiappa viola.
“Chi è stato? Uno de li amici tua? Te l’ho detto de nun girà co quei furfanti.”
“Ma no! Loro che c’entrano? E’ stato quello storpio dei Parise.”
“Ma chi? Augusto? Com’ha fatto? Nun era malato?”
“Sta guarendo, sto muso de cacca.”
“E viene in giro co voi?”
“No, mica cammina. Sta fermo come nu baccalà su quella sedia. Io pensavo che dormiva e me so avvicinata. Ma quella faccia da porco faceva finta e m’ha fregata.”
“Ma dov’eravate?”
“E mo che c’entra?”
“Dimme dov’eravate. Subito.”
“Nellu cortile suo.”
“E tu che ce facevi nellu cortile dei Parise?”
“Gnente, passavamo de lì.”
“Siete andati a dar fastidio a nu ragazzino malato fino a casa sua?”
“No.”
“No?”
“No. Forse. Sì”, confessai di fronte agli occhi stretti stretti di Lucia, “ma nun abbiamo fatto gnente de male. Era solo nu gioco. Nun sono riuscita manco a pigliarlo.”
La sorella mia mi guardava con la faccia severa. Non mi faceva paura. Peggio: mi faceva sentire più piccola e brutta di una zecca.
“De chi è stata sta bell’idea?”
“Che t’importa?”
“Nun sarà mica stata tua?”
“No”, dissi fissandomi i piedi zozzi.
“No?”
“No! Io glel’ho detto alli amici mia che ste cose nun se fanno. Che Gesù ce guarda dallu cielo e se siamo cattivi ce manda colli diavuli. Ma loro non m’hanno voluto ascoltà.”
“Davvero me credi tanto fessa? Tu alli diavuli te li magni, altroché! Annamo subito a chiedere scusa.”
“Scusa? A quello? Ma nun l’hai visto che m’ha fatto?”
“Sì e ha fatto pure bene. Cuscì la prossima volta ce pensi prima de fare ste furbate. Tutte e due le chiappe te doveva prendere!”
“Ma te da che parte stai? Io là nun ce torno.”
“Tu ce torni!”
“No!”
“Sì!”
“No! Tu nun me poi dare ordini!”
“Sì che posso!”
“No! Nun sei mica la mamma tu! Nun sei nisciunu! Nisciunu!”
A Lucia vennero gli occhi lucidi di lacrime. A me, però, non m’importava niente. Io, anzi, ero pure contenta. Contenta di farle dispiacere. Se neanche lei stava mai dalla parte mia allora a me non restava proprio nessuno. Se ne potevano andare tutti a quel paese. Pure lei.
“Vabbè. Come voi te”, disse la sorella mia cercando di stare calma, “ce ne stiamo qua bone bone ad aspettare che vengono li genitori sua.”
“E che ce vengono a fare qua?”
“Che ce vengono a fare? A lamentarsi co la mamma e co lu babbo.”
“E perché?”
“Ma tu davvero fai? Hai dato fastidio a lu figlio loro, sei entrata nella casa loro e, se te conosco abbastanza, c’hai anche fregato la frutta. Quelli staranno come pazzi dalla rabbia.”
Guardai Lucia con gli occhi e la bocca spalancati e poi mi afflosciai a terra, piccola e bianca come uno straccetto: “Lu babbo sta volta m’ammazza”, sussurrai.
“Lu babbo c’ammazza a tutte e tre.”
Era vero. Lui di solito non faceva differenze, quando iniziava a menare, menava alla cieca, non faceva eccezioni o favoritismi. Era molto democratico.
Credo di non aver mai avuto tanta paura in tutta la vita mia. Mi veniva da vomitare e pure da farmela addosso. Avevo voglia di scappare lontano o di scavare una buca e nascondermici dentro.
Lucia mi prese per mano ed assieme, senza dire una parola, marciammo come soldatini fino al cancello dei Parise. In realtà marciò solo lei, dritta e fiera, mentre io venni tirata dietro di peso.
Alla porta si presentò una donna bella ed elegante, con gli occhi grandi e neri e le ciglia piegate all’insù. I suoi abiti erano puliti e stirati ed alle orecchie portava dei piccoli cerchietti con dei granati. Una vera sciccheria. Una roba da signori.
“Prego?” disse, guardandoci come si guarda un cane che ti piscia davanti casa.
“Bongiorno signora Parise. Ce dispiace tanto de disturbarve”, iniziò la sorella mia tutta seria.
“Bongiorno.”
“Io so Lucia Carretta e questa è Adelina.”
“Giorno”, dissi io controvoglia.
“Lo so benissimo chi siete”, rispose la Signora con la faccia tirata e la bocca stretta a culo di gallina.
“Simo venute a chiedere scusa”, continuò Lucia e, senza prendere mai fiato, come un bimbo che recita la poesia di Natale, buttò fuori tutto il discorsetto che s’era preparata: “Adelina è piccina e se lascia trascinare da quelli più grandi de lei ma nun è cattiva e mo è molto dispiaciuta. Nun voleva fare male allu figliolo vostro. Vero Adelì?”
“Eh? Sì, sì. Certo. So stati li amici mia. E’ tutta colpa de quelli. Io nun so mica cattiva, nun so. Io ce lo so che Gesù ce guarda.”
“Mo chiedi scusa, Adelì.”
“Che? E perché? Nun è mica stata colpa mia!”
“Adelì, chiedi scusa e basta!”
Ma io avevo la capoccia dura e non volevo piegarmi neanche un po’.
“Guarda che, se nun chiedi scusa, te do nu pizzico che te faccio piagne.”
Quella col sedere viola ero io, pensavo, Augusto in fondo non aveva neanche un graffio e poi faceva la bella vita in una casa da signori con una mamma tutta profumata. Perché dovevo pure chiedergli scusa?
“Adelì, simo venute apposta.”
“E infatti io nun ce volevo venì.”
“O chiedi scusa o ce ne torniamo de corsa alla casa, che lu babbo c’aspetta.”
La paura del babbo mio era sempre un buon modo per sciogliermi la lingua e Lucia lo sapeva bene, perché non era solo buona ma pure furba.
“Scusateme”, mi decisi finalmente a bofonchiare con la vocetta bassa e gli occhi appiccicati a terra.
La signora Parise avrà avuto di certo una gran voglia di mettermi sulle ginocchia e farmi diventare il culo nero a forza di pacche, che se non ce l’aveva prima di sicuro le era venuta dopo tutto questo teatrino, ma da signora qual’era mantenne la calma e rivolta a Lucia disse: “Scuse accettate, ma avverti li genitori tua che stasera io e lu maritu mio veniamo a farve visita. Sta bimbetta c’ha bisogno de na bella raddrizzata.”
“No!” rispose allarmata Lucia.
“No?”
“No, volevo dire, no, nun ve dovete disturbare. Ve prometto che d’ora in poi ce penserò io a lei.”
“Nun te preoccupare, nessun disturbo.”
“Signora Parise, ve prego, site gentile. Nun mettiamo in mezzo lu babbo. Gli diamo già tanti pensieri cuscì. Ve prego”, chiese Lucia, con la voce che iniziava a tremare.
La madre di Augusto guardò la sorella mia, una ragazzina che provava a fare la grande, e poi guardò me, una bambina brutta e cattiva come un vecchio cane randagio ma spaventata e piccola come un cuccioletto con gli occhi ancora chiusi. E finalmente sembrò capire. Le rughe della fronte le si appiattirono tutte e lo sguardo le s’intenerì un poco. Dovevamo fare proprio tanta pena, e quella donna doveva avere il cuore proprio tanto grande se riuscì ad addolcirsi anche con me: il mostro che le aveva appena preso a sassate il figlio malato.
“Forse c’hai ragione tu, nun c’è bisogno de disturbare li tua. Ma tieni d’occhio sta peste, me raccomanno.”
“Certo. Lo farò. Ve ringrazio, site davvero molto gentile. Lu Signore ve renderà merito.”
“Mo che ce siamo chiarite, perché nun venite tutte e due dentro a bere nu poco de latte caldo?”
Io mi feci avanti tutta contenta, che da piccola c’avevo più stomaco che coscienza, ma Lucia m’acchiappò per il collo: “No, ve ringraziamo molto signora Parise, ma la mamma e lu babbo ce stanno aspettando alla casa. E se facciamo tardi stanno in pensiero.”
“C’hai ragione. Sei proprio na signorina pe bene. La sorella tua è fortunata ad averce almeno a te.”
Pochi minuti dopo, rientrando a casa, sentimmo le solite urla dalla cucina e ci mettemmo buone buone nella stalla ad aspettare. Quella volta non corsi via, ma rimasi con la testa appoggiata sulle gambe di Lucia a frignare.
“Tranquilla, Adelì, ce sto qua io co te, nun si sola.”
“Potevamo bere lu latte dei Parise, però” dissi tirando su col naso.
“Ma c’hai sempre fame tu?”
“Lu latte caldo è bono. Quelli so ricchi e magari c’hanno pure lu miele.”
“Sei senza fondo e pure senza vergogna. Che c’entriamo noi in quella casa?”
“C’ha invitato la padrona.”
“Ce stava facendo la carità.”
“E che male c’è?”
“Li pezzenti prendono la carità.”
“E noi che simo? Nun simo pezzenti?”
“Guai a te se te fai sentire da mamma a dire na cosa cuscì. Noi simo na famiglia pe bene e nun c’abbiamo bisogno della carità de nisciunu.”
Sbuffai ma rimasi accucciata contro Lucia che mi cullava come fossi una creatura.
Fuori iniziò a piovere e ci riparammo dal freddo mettendoci sotto la paglia. Le nostre bestie ci guardavano con i loro grandi occhi tristi. Forse non eravamo pezzenti ma eravamo sicuramente disgraziate. Talmente disgraziate da far pena pure a due vacche.
Continua...
Prologo - 1 - 2 -3-4
Augusto mio non è mai stato una gran bellezza.
Era piccoletto con la fronte bassa e tanti capelli duri come il fil di ferro, che per sistemarglieli ogni mattina era una battaglia. Prima di andare in fabbrica lui si sedeva in canottiera, ed io bagnavo il pettine in un catino pieno d’acqua. Stavo in piedi tra le gambe sue e gli tenevo la testa premuta contro il petto. Lui un poco rideva e un poco si lamentava: “Piano Adelì, me voi tirare lu collo come a na gallina?”
“Ma sta zitto tu, che si comodo come tra du guanciali. E tieni le mano apposto sa!” lo sgridavo per gioco, mentre lui faceva il furbo e s’aggrappava ai fianchi miei.
“Bella la moglie mia”, diceva Augù, “morbida come na mozzarella e dolce come nu limone.”
Quel momento della giornata era tutto nostro, e ci piaceva così tanto che andammo avanti a farlo anche quando di capelli ormai glien’erano rimasti pochini.
Quanto mi mancano le mani sue e pure quella voce bassa bassa che usava solo con me. A pensarci mi viene una nostalgia che starei qui a frignare per ore, peggio d’un pupo.
L’amore mio era pure zoppo, perché da ragazzino aveva avuto una brutta malattia, quella che ti lascia con una gamba più piccola dell’altra: la polio. Per camminare c’aveva bisogno del bastone ma lavorava come e più degli altri, faceva il doppio della fatica e non chiedeva mai sconti.
Ma quel pomeriggio di quasi ottant’anni fa, quando lo incontrai per la prima volta, non vidi l’uomo che sarebbe diventato ma solo il ragazzino che era.
Noi disgraziati ci eravamo arrampicati sul muro del cortile suo per arrivare ai frutti di un albero, e da lì l’avevamo visto. Era più grande di tutti noi e se ne stava buono buono, seduto su una seggiola, con una gamba secca e storta che gli sporgeva dai pantaloni corti.
“Ma che c’ha quello?”, chiesi agli altri.
“C’ha avuto na brutta malattia ma adesso sta guarendo”, mi rispose Maso, figlio del ciabattino e di una delle impiccione della piazza, e per questo informato su tutti i fatti del paese, meglio del confessore di Santa Rita.
“A me quella gamba me fa paura.”
“Lo sapevo io. Questa se da tante arie ma è na cacasotto proprio come tutte le femmine”, disse quella lingua velenosa di Teo, che a me non m’ha mai potuta vedere.
Gli altri si misero tutti a ridacchiare. Tutti. Si credevano meglio di me solo perché erano maschi. Come se ci volesse un talento particolare a nascere coll’uccello tra le gambe.
Io sono sempre stata bella fumantina e questo bastò per farmi andare subito il sangue alla testa. E quindi, per dimostrare il coraggio mio e che pure se ero femmina non valevo meno di loro, non trovai niente di meglio che inventare il “tiro allo storpio”.
La storia che tutti i bimbi sono buoni come angioli e solo crescendo si fanno cattivi è una gran fesseria. Alcuni bambini sono senza sentimenti come e più degli adulti ed io, da questo punto di vista, ero proprio un bell’esempio. Ero dispettosa e pure prepotente. Non ne vado mica fiera e non sto qui a vantarmi, ma ero fatta proprio così, e la storia mia o la racconto per benino o non la racconto per niente.
Comunque, a tutto il gruppo di santi con cui m’accompagnavo la mia idea piacque tantissimo. A tutti tranne che a Bastiano: “Mamma dice che Gesù me guarda dallu paradiso e che se faccio qualcosa de brutto se lo segna e poi me manna a bruciare assieme alli diavuli. Io nun ce voglio bruciare colli diavuli!”
Nessuno di noi voleva scottarsi i piedi sui carboni dell’inferno e così decidemmo che non c’era bisogno di colpire davvero Augusto, ma che il vincitore sarebbe stato quello che col sasso si avvicinava di più. Praticamente giocammo a bocce con la capoccia del futuro marito mio.
Per una settimana, quando tutti erano a scuola o nei campi, ci arrampicammo sul muro e ci dedicammo al nuovo passatempo nostro. I giorni andavano avanti e Augusto se ne stava al sole con gli occhi chiusi, senza muoversi. Sembrava che neanche si accorgesse di noi e questo ci faceva ogni volta più sfacciati e curiosi, fino a quella mattina disgraziata.
“Ma nun sarà mica morto?”, si preoccupò Giovanni.
“Ma quanto si scemo? Nun vedi che respira, starà a durmì”, rispose Teo.
“Forse è sordo” azzardò Pino.
“Pe me è solo scemo” la chiusi io, infilando il mio corpo gracilino attraverso una grande crepa del muro ed entrando nel cortile. Iniziai ad avvicinarmi a passi lenti, come un gattaccio secco e nero che vuole mangiarsi un uccelletto.
“Ma che fai? Vieni via!” disse Gino.
“Zitto tu”, lo sgridò Maso, “brava Adelì, vacce vicino! Vacce vicino e mollaglie na sassata sulla capoccia!”
Non ebbi neanche il tempo di alzare il braccio che Augusto spalancò gli occhi e si sporse in avanti.
Vidi solo la fionda che veniva tesa e mi voltai per scappare. Ero quasi alla crepa quando sentì un gran male al fondo schiena, un bruciore peggio del morso d’un cane.
Ma il dolore non mi fece fermare. Corsi fino a quando non sentii più le urla degli amici miei, “Scappa Adelì, scappa!”, e dei Parise che si erano affacciati richiamati da tutta quella confusione, “Acchiappate quei disgraziati!”
Corsi a perdifiato fino a quando non fui sola.
Corsi alla stalla con sedere ed orgoglio fatti a bozzi.
Augusto aveva aperto gli occhi e mi aveva sorriso. Era stato tutti quei giorni fermo, aspettando che uno di noi fosse così scemo da avvicinarsi. Era ancora troppo debole e non poteva alzarsi per venire a darci una lezione, e così aveva atteso tranquillo e con la pazienza d’un santo che fossimo noi ad andare da lui.
La prima a cascarci ero stata io.
Augusto mi aveva fatto fessa. Che gran cornuto!
Continua...
Prologo - 1 - 2 -3
Era piccoletto con la fronte bassa e tanti capelli duri come il fil di ferro, che per sistemarglieli ogni mattina era una battaglia. Prima di andare in fabbrica lui si sedeva in canottiera, ed io bagnavo il pettine in un catino pieno d’acqua. Stavo in piedi tra le gambe sue e gli tenevo la testa premuta contro il petto. Lui un poco rideva e un poco si lamentava: “Piano Adelì, me voi tirare lu collo come a na gallina?”
“Ma sta zitto tu, che si comodo come tra du guanciali. E tieni le mano apposto sa!” lo sgridavo per gioco, mentre lui faceva il furbo e s’aggrappava ai fianchi miei.
“Bella la moglie mia”, diceva Augù, “morbida come na mozzarella e dolce come nu limone.”
Quel momento della giornata era tutto nostro, e ci piaceva così tanto che andammo avanti a farlo anche quando di capelli ormai glien’erano rimasti pochini.
Quanto mi mancano le mani sue e pure quella voce bassa bassa che usava solo con me. A pensarci mi viene una nostalgia che starei qui a frignare per ore, peggio d’un pupo.
L’amore mio era pure zoppo, perché da ragazzino aveva avuto una brutta malattia, quella che ti lascia con una gamba più piccola dell’altra: la polio. Per camminare c’aveva bisogno del bastone ma lavorava come e più degli altri, faceva il doppio della fatica e non chiedeva mai sconti.
Ma quel pomeriggio di quasi ottant’anni fa, quando lo incontrai per la prima volta, non vidi l’uomo che sarebbe diventato ma solo il ragazzino che era.
Noi disgraziati ci eravamo arrampicati sul muro del cortile suo per arrivare ai frutti di un albero, e da lì l’avevamo visto. Era più grande di tutti noi e se ne stava buono buono, seduto su una seggiola, con una gamba secca e storta che gli sporgeva dai pantaloni corti.
“Ma che c’ha quello?”, chiesi agli altri.
“C’ha avuto na brutta malattia ma adesso sta guarendo”, mi rispose Maso, figlio del ciabattino e di una delle impiccione della piazza, e per questo informato su tutti i fatti del paese, meglio del confessore di Santa Rita.
“A me quella gamba me fa paura.”
“Lo sapevo io. Questa se da tante arie ma è na cacasotto proprio come tutte le femmine”, disse quella lingua velenosa di Teo, che a me non m’ha mai potuta vedere.
Gli altri si misero tutti a ridacchiare. Tutti. Si credevano meglio di me solo perché erano maschi. Come se ci volesse un talento particolare a nascere coll’uccello tra le gambe.
Io sono sempre stata bella fumantina e questo bastò per farmi andare subito il sangue alla testa. E quindi, per dimostrare il coraggio mio e che pure se ero femmina non valevo meno di loro, non trovai niente di meglio che inventare il “tiro allo storpio”.
La storia che tutti i bimbi sono buoni come angioli e solo crescendo si fanno cattivi è una gran fesseria. Alcuni bambini sono senza sentimenti come e più degli adulti ed io, da questo punto di vista, ero proprio un bell’esempio. Ero dispettosa e pure prepotente. Non ne vado mica fiera e non sto qui a vantarmi, ma ero fatta proprio così, e la storia mia o la racconto per benino o non la racconto per niente.
Comunque, a tutto il gruppo di santi con cui m’accompagnavo la mia idea piacque tantissimo. A tutti tranne che a Bastiano: “Mamma dice che Gesù me guarda dallu paradiso e che se faccio qualcosa de brutto se lo segna e poi me manna a bruciare assieme alli diavuli. Io nun ce voglio bruciare colli diavuli!”
Nessuno di noi voleva scottarsi i piedi sui carboni dell’inferno e così decidemmo che non c’era bisogno di colpire davvero Augusto, ma che il vincitore sarebbe stato quello che col sasso si avvicinava di più. Praticamente giocammo a bocce con la capoccia del futuro marito mio.
Per una settimana, quando tutti erano a scuola o nei campi, ci arrampicammo sul muro e ci dedicammo al nuovo passatempo nostro. I giorni andavano avanti e Augusto se ne stava al sole con gli occhi chiusi, senza muoversi. Sembrava che neanche si accorgesse di noi e questo ci faceva ogni volta più sfacciati e curiosi, fino a quella mattina disgraziata.
“Ma nun sarà mica morto?”, si preoccupò Giovanni.
“Ma quanto si scemo? Nun vedi che respira, starà a durmì”, rispose Teo.
“Forse è sordo” azzardò Pino.
“Pe me è solo scemo” la chiusi io, infilando il mio corpo gracilino attraverso una grande crepa del muro ed entrando nel cortile. Iniziai ad avvicinarmi a passi lenti, come un gattaccio secco e nero che vuole mangiarsi un uccelletto.
“Ma che fai? Vieni via!” disse Gino.
“Zitto tu”, lo sgridò Maso, “brava Adelì, vacce vicino! Vacce vicino e mollaglie na sassata sulla capoccia!”
Non ebbi neanche il tempo di alzare il braccio che Augusto spalancò gli occhi e si sporse in avanti.
Vidi solo la fionda che veniva tesa e mi voltai per scappare. Ero quasi alla crepa quando sentì un gran male al fondo schiena, un bruciore peggio del morso d’un cane.
Ma il dolore non mi fece fermare. Corsi fino a quando non sentii più le urla degli amici miei, “Scappa Adelì, scappa!”, e dei Parise che si erano affacciati richiamati da tutta quella confusione, “Acchiappate quei disgraziati!”
Corsi a perdifiato fino a quando non fui sola.
Corsi alla stalla con sedere ed orgoglio fatti a bozzi.
Augusto aveva aperto gli occhi e mi aveva sorriso. Era stato tutti quei giorni fermo, aspettando che uno di noi fosse così scemo da avvicinarsi. Era ancora troppo debole e non poteva alzarsi per venire a darci una lezione, e così aveva atteso tranquillo e con la pazienza d’un santo che fossimo noi ad andare da lui.
La prima a cascarci ero stata io.
Augusto mi aveva fatto fessa. Che gran cornuto!
Continua...
Prologo - 1 - 2 -3
Pancrazia and the city/1
giovedì, maggio 15, 2014
Sono una single di ritorno. Cos'é una single di ritorno? Una che è stata impegnata per una quantità infinita di anni in una relazione. Una che a spizzichi e mozzichi ha persino convissuto.
Categories
IlMioProgetto
chiacchiere
libri
Racconti
viaggi
cinema
Torino
RadioCole
attualità
musica
televisione
società
DiarioRacconti
sport
Nella Rete
blogosfera
Laboratorio Condiviso
teatro
citazioni
microracconti
FacceDaPalco
arte
Un marito per caso e per disgrazia
scrittura creativa
Erasmus
HumansTorino
Peanuts
cabaret
lavoro
Rugby
meme
ImprovvisazioneTeatrale
PrincipeV
poesia
OffStage
articolo sponsorizzato
Pancrazia Consiglia
pubblicità
twitter
PancraziaChi?
TronoDiSpade
articolo
Adelina
Harry Potter
Podcast
premi
tennis
graficamente
PancraziaInBerlin
laboratorio scrittura
materiale di scarto
DaFacebookAlBlog
Pancrazia and the City
Roma
True Colors
DonnePensanti
EnglishVersion
favole
sogni
CucinaCole
IlRitorno
chiavi di ricerca
dasegnalare
help 2.0
video
Le piccole cose belle
Mafalda
Rossana R.
cucina
dixit
kotiomkin live
blog candy
branding
copywriting
da segnalare
metropolitana
personal branding
satira
viaggio dell'eroe
Powered by Blogger.