Applausi, gioia e giubilo, standing ovation per gli ultimi racconti nati dal Laboratorio Condiviso di Scrittura. Ogni partecipante ha pescato tra tutti gli esercizi assegnati quest'anno e ne ha scelto uno.
Che grande avventura è sta questa. Ringrazio tutti, tutti, tutti, coloro che hanno partecipato, quelli da un racconto solo come i fedelissimi, coloro che hanno letto e pure coloro che mi hanno detto "prima o poi partecipo eh" e poi chi li ha più visti?
Ringrazio voi che avete regalato a me e al mondo le vostre storie, la vostra fatica, il tempo dedicato a una parola dopo l'altra a una frase dopo l'altra, la vostra immaginazione e, in qualche caso, persino i vostri segreti.
Questa avventura si conclude con una miscellanea di storie, tanta gioia e parecchia nostalgia.
Buona lettura a tutti e, non temete, qualcos'altro m'inventerò!
La sua camera era rimasta esattamente come l’aveva lasciata, tre anni prima. Le fotografie che avevano vinto dei premi erano ancora lì, appese alle pareti. Il letto aveva ancora il piumino a tinte vivaci che tanto gli piaceva, su una mensola le foto più importanti della sua vita lo guardavano, circondate di argento massiccio che suo padre aveva cesellato.
Dalla cucina proveniva un buon profumo di pasta al forno, il suo piatto preferito. La madre lo stava preparando per festeggiare il suo ritorno a casa per le feste, il padre leggeva il giornale sul divano del salotto, come faceva tutte le domeniche.
La sua attenzione era stata catturata da una fotografia al centro esatto della mensola, una ragazza con gli occhiali scuri ed i capelli blu che guardava dritta in camera. Ricordava esattamente quando la foto era stata scattata. Era sdraiata sul trampolino di una piscina vuota, il suo migliore amico sopra di lei che cercava di non precipitare di sotto mentre scattava la foto, una vita fa.
Poco tempo dopo, aveva preso la decisione più difficile della sua vita. Era una splendida domenica di sole i cui raggi attraversavano il salotto illuminando il divano sul quale i genitori si erano seduti. Dopo qualche esitazione aveva iniziato il suo lungo racconto, in cui ricordava il voler giocare ai cosiddetti “giochi dei maschi” quando era piccola, la mancanza di un ragazzo, tutti quei piccoli segnali che si sarebbero poi tramutati in una ineluttabile ed a tratti feroce presa di coscienza. Lei non era una ragazza, era un ragazzo intrappolato in un corpo che non gli apparteneva, ormai era arrivato a un punto tale che non era possibile tornare indietro. I dottori la chiamano “riassegnazione di genere”, aveva spiegato, e comprende l’assunzione di ormoni, lunghe sedute psicologiche ed infine la chirurgia. Non voleva soldi, aveva detto, il suo lavoro legato alla fotografia le aveva dato l’indipendenza economica già da un po’, insieme ad un piccolo appartamento che fungeva anche da studio, voleva solamente che loro sapessero e che cercassero di comprendere ed appoggiare la sua decisione.
La madre aveva preso un profondo respiro ed aveva parlato a lungo. Tutti quei segnali erano stati visti e discussi nell’intimità insieme al marito, avevano convenuto entrambi che c’era qualcosa di insolito in quella figlia che giocava come centravanti e che aveva sempre preferito i trenini alle bambole. Ma, aveva proseguito, avevano deciso che andava bene così, la cosa più importante era che lei fosse felice. Quindi no, non era stato esattamente un trauma sentire quelle parole dalla figlia che si dovevano abituare a chiamare figlio, ma di sicuro ci sarebbero volute molte spiegazioni ai parenti, in special modo alle zie che avevano una mentalità molto meno aperta della loro, ma che ci avrebbero provato.
Il padre invece aveva inaspettatamente piegato il giornale con molta cura e si era allontanato dalla stanza. Per quasi tre anni il ragazzo non aveva mai ricevuto da lui un messaggio, una telefonata o una lettera. Finché un giorno, al risveglio dalla sua quarta operazione chirurgica, aveva trovato un mazzo di fiori accanto al letto, il biglietto diceva poche ma potentissime parole: “Scusa. Ti voglio bene. Papà”. Aveva pianto di commozione e di gioia fino ad addormentarsi.
E così il ragazzo si ritrovava nella sua vecchia stanza, col profumo del pranzo ed i ricordi che gli parlavano dal contenuto delle cornici d’argento cesellate a mano. Passando davanti allo specchio, il riflesso della sua figura era irriconoscibile rispetto a quella ragazza coi capelli blu e gli occhiali scuri che guardava dritto, quasi a sfidare, l’obiettivo che la stava ritraendo. Adesso aveva i capelli cortissimi e biondo scuro, un filo di barba ed il fisico muscoloso e ben definito. Ma non tutto era cambiato, l’amore dei suoi genitori era immutato, dandogli forza e determinazione. Il cammino sarebbe stato ancora lungo e difficile, questo lo sapeva, ma con i genitori al suo fianco niente pareva impossibile.
Con un mezzo sorriso era uscito dalla stanza, chiudendo alle spalle la porta e il suo passato. Adesso avrebbe avuto tante cose di cui parlare con i suoi genitori, davanti ad un buon piatto di pasta e ad un futuro importante e luminoso.
Beppe Carta
“Ogni movimento quella mattina era fatto per irritare, un cartone inanimato alla volta, un continuo aprire e chiudere quella dannata porta. Tutto sembrava fatto per far uscire il residuo di tepore rimasto, per far entrare il freddo nel nido che si stava svuotando irrimediabilmente durante il peggiore degli inverni. Dal vetro era scomparso anche quella sorta di “benvenuto” appiccicato. Una specie di copia della coppia caricaturizzata, adesiva, bidimensionale, con colori brillanti, con facce allegre e vestitini tondi e morbidi, di quelle che recitano il mantra “Love is...”. Sì, la porta, quella che avevo lasciato sempre aperta, a tutte le ore, in qualsiasi giornata, con qualsiasi condizione meteorologica. Aperta a chiunque, soprattutto a chi non mi garbava (reciprocamente), anche a chi aveva remato contro la nostra coppia, anche a lui che da un anno la utilizzava come una portineria.
Sulla porta del frigorifero avevo messo il mio cuore, che recitava “dove c'è Amore c'è Casa”, lo aveva visto e io non avevo potuto fare a meno di vedere il suo ghigno, che oramai aveva smesso di coprire. Più avanti nel tempo lo avrei stanato, per sentirmi rinfacciare che in fondo ero stata io ad averlo chiuso fuori di casa. In effetti quel giorno, quando stava traslocando nella sua nuova vita, ero ferma sulla mia posizione dichiarata da sempre, sui cerchi che si stavano chiudendo inesorabilmente. Neanche quella sera chiusi la porta. Ma poi arrivò l'indomani con tutti gli andirivieni necessari e qualcuno in più, allora mi sentii pronta... e fu così che mi chiusi la porta alle spalle e, questa volta, per sicurezza, diedi anche due mandate.”
Sirena Aliena
***
Da fuori, la fabbrica aveva perfino un bell’aspetto. Mi avevano detto che era opera di un grande architetto, Agnelli era un uomo che amava le belle cose. Avevo ventidue anni, fidanzato in casa, vivevo in un monolocale sul ballatoio in attesa di sposarmi con Lorella, mia coetanea, impiegata presso un avvocato. Tiravo la cinghia per mettere da parte i soldi per il matrimonio. Ero bravo a fingere. La domenica erano tutte uguali: pranzavo a casa dai suoi, poi andavamo in centro a fare una passeggiata mano nella mano, discorsi approssimativi sul nostro futuro, bacio tiepido sulla guancia sulla soglia di casa. Salivo sull’autobus e vedevo la gente prendere fuoco, chiedevo permesso, scusi, devo scendere, camminavo per chilometri sudato e affannato, cercando di riportare il battito del cuore alla normalità.
Guarda che faccia che hai, si vede che non te la dà. Ragazzi, qui dobbiamo organizzare una spedizione a puttane per il ragazzo pugliese, quella timorata di dio lo sta facendo andare fuori di testa. Gerardo, il mio compagno alle presse, si preoccupava per la mia salute. Gli altri annuivano, confabulavano, volevano trovare un rimedio. Io stavo zitto, loro mi assicuravano che non era così che doveva andare, l’avessero avuto loro un buco per scopare in santa pace alla mia età. Altro che matrimonio, tiè fuma, che sei preoccupante. Cazzo, ma da dove è uscito questo qui? Dalla Puglia, rispondevo. Ecco, sei un disonore per la tua terra.
Così, decisero per una cura di altro genere. Mi portarono al circolo operaio, due locali al piano terra in mezzo alle case popolari, pieni di gente, fumo, le chitarre, i manifesti di Potere Operaio con il sole radioso, le ragazze che ancheggiavano. Il vino aspro, forte, e un senso di comunanza mai vissuto prima. Dai, sorridi, mi dicevano i compagni, e bevi ancora un po’. E quelle chi sono? Le compagne, le femministe, occhio, che neppure quelle te la danno, o se lo fanno, poi ti fanno la predica che sei un fallocrate di merda, attenzione, ragazzo. Meglio la tua Lorella, o Loretta o come tramischia si chiama. A proposito, la vedi ancora, quella piaga? Certo che la vede ancora, sono fidanzati in casa, il ragazzo si è fottuto con le sue stesse mani.
How do iiu feel, like a rolling stone. Avevo imparato la canzone che mi rispecchiava in pieno. La cantavo, tutto concentrato per via del mio inglese popolare, quando era arrivata lei. Spostati, mi aveva detto, e si era seduta in braccio. Come è che ti chiami tu? Sei nuovo non ti ho mai visto prima. Aveva un profumo forte, pungente, che non conoscevo, è patchouli, mi disse. Aveva tre metri di sciarpa addosso, credo fosse fatta con gli avanzi di lana. Sembrava assorta, concentrata, gettava fuori il fumo della sigaretta e potevo contarle i denti candidi, mentre cercavo di tenere a bada un’erezione che si faceva avanti impavida. Secondo me aveva bevuto troppo, ma se è per quello anch’io non avevo scherzato. All’improvviso tutto sembrava talmente facile, posso venire a trovarti? A casa? Si, certo, cos’hai, sei tutto rosso, non ti senti bene? Deve essere che ho bevuto troppo. L’idea di averla in casa, solo per me, era intollerabilmente meravigliosa.
Dopo una settimana, quando ormai non ci speravo più, mi aveva bussato sulla porta a vetri ed era entrata come un uragano nella mia stanza. Dopo un attimo di reciproco imbarazzo, ecco che mi sospingeva sul divano letto, per fortuna già chiuso, e mi aveva abbracciato, avvolgendomi, inchiodandomi, prendendomi di sorpresa. Ero terrorizzato. Di sesso non ci capivo niente. Lei respirava piano sul mio maglione, io la trattenevo accarezzandola dolcemente tra i capelli, Capivo che quello era una specie di miracolo e non volevo rovinare niente. Ma quale fosse la prossima mossa, io non lo sapevo. Dovevo toccarle il seno, sfilarle il maglione, leccarle le dita? Non volevo rovinare niente. Mi piaceva stare così, stretto, sentire che non le stavo facendo del male. Il tempo passava e per quel che mi riguarda, non esisteva più niente al di fuori di noi due. La sera ci avvolgeva, non avevo il coraggio di accendere la luce.
Tu sei diverso, dagli altri, mi diceva, sei bello. Ora devo andare. Se non arrivo per le sette e mezza, mio padre mi spara. Dice che ho solo diciassette anni, a me sembrano tanti e a te? Mi faceva domande ma non aspettava mai le risposte, galoppava sempre un metro avanti a me, posso tornare vero? Sulla porta mi aveva baciato, un bacio vero, come quelli dei film.
Nel giro di un mese, avevo disdetto il contratto di affitto, dato il preavviso in fabbrica. Fai bene, avevano detto i compagni, sei troppo giovane per restare a marcire qui dentro, vai giù coltiva la terra, metti su una falegnameria, non farti succhiare la vita. Approvavano? Si, approvavano. Non vedevo più scoppiare gli incendi, le allucinazioni erano finite. Con Lorella era stato difficile. Era dura con me, non capiva, se avevo un’altra perché me ne andavo, non avevo un'altra e lei non c’entrava niente, ero io che avevo sbagliato, avrei deluso i suoi genitori, e i miei, certo che non crescevo mai, ero proprio un immaturo.
E l’altra? La principessa era tornata un pomeriggio, con i biscotti per il tè. Mi raccontava della manifestazione per l’aborto libero, dei suoi problemi a scuola, di un tipo che le piaceva. E come mai volevo tornare al paese, e la mia ragazza che diceva. L’ho lasciata. Davvero? Senti, sai che c’è, ti regalo la mia sciarpa per ricordo, poi per le vacanze vengo a trovarti, se non vado in Grecia con le amiche, se mio padre mi lascia, dio che palle, certo al ritorno potrei passare, la puglia però è di strada se scendo a Brindisi posso raggiungerti. Ma davvero l’hai lasciata?
Dopo una settimana, era arrivato il giorno della partenza. Il mio monolocale aveva l’aria triste e abbattuta di sempre, con le pareti gialline e il calendario appeso di sghimbescio a cui non avevo più strappato i giorni. l’ho scampata bella, avevo detto, rivolto alle mie valige sul pavimento. Cosa dici, ragazzo pugliese ex-operaio Fiat? Gerardo era venuto a prendermi. Niente, parlo da solo, andiamo che si fa tardi. Mi chiusi la porta alle spalle, per sicurezza diedi due mandate.
Barbara Fiore
Lola Larsen era la ragazza più bella di tutto Buenos Aires. Un corpo esile ma dalle giuste forme, lunghe gambe da gazzella, capelli talmente chiari da sembra bianchi, occhi verdi da gatta. Un aspetto fatto per sedurre che nascondeva un carattere spigoloso e poco incline alle moine.
Era arrivata in Argentina, insieme ai suoi nonni, all’età di quattro anni. La madre era morta pochi mesi prima e i tre si erano imbarcati dalla Svezia per raggiungere Olav Larsen, suo padre. Ricco imprenditore che era partito per il Sud America quando la piccola Lola doveva ancora venire al mondo. Aveva annusato un’occasione e aveva scelto di lasciare la giovane moglie da sola con il pancione. La piccola Lola non gliel’avrebbe mai perdonato.
Questa piccola bimba svedese era venuta al mondo quando le giornate erano brevi e le notti lunghe ma la madre aveva scelto per lei un nome caldo e straniero proprio per legarla a quel padre così lontano.
I nonni di Lola erano morti nel giro di pochi mesi. Olav e la bambina erano rimasti da soli. L’uno accanto all’altro a guardarsi sconosciuti.
Lola sarebbe stata cresciuta da numerose tate, avrebbe imparato rapidamente lo spagnolo ma l’avrebbe sempre parlato con un curioso esotico accento che, ormai donna, ne avrebbe addirittura aumentato il già notevole fascino.
Ottima musicista, portata per le lettere e ben educata. Lola era una dama bella e fredda, chiusa in un mondo privo di affetti.
Non aveva ancora compiuto quindici anni quando la sua eterea bellezza cominciò ad attirare l’attenzione degli uomini per strada o degli amici di suo padre. Molti la guardavano con la reverenza che si deve a una Madonna, altri con la lascivia ispirata dalla Maddalena. Lei ignorava in ugual misura sia gli uni che gli altri. Li notava ma non ricambiava, mai. Non che non volesse sposarsi. Lo desiderava moltissimo. Voleva una casa propria, voleva lasciare dietro alle spalle un padre verso il quale provava un irrazionale ma inossidabile rancore.
Desiderava un marito ma non voleva sbagliare, voleva l’uomo giusto accanto a sé, dai quattro anni in poi era stata costretta a trascorrere la propria infanzia con chi non amava, non avrebbe permesso che succedesse ancora. Non che volesse innamorarsi follemente. No, quello, no. Anzi, quello lo voleva proprio evitare, non voleva che l’amore annebbiasse il suo giudizio, proprio com’era successo a sua madre. Voleva un uomo accanto che non l’abbandonasse. Non lo doveva amare, l’amore era un sentimento volubile, lei voleva una presenza stabile, a cui appoggiarsi, di cui fidarsi.
Ed è per questo che più cresceva più si guardava in giro con attenzione. Non troppo giovane né troppo vecchio. Una professione stabile, un animo gentile. Infine, tra tutti i conoscenti di suo padre scelse il notaio Pedro Lopez. Era scuro, dove suo padre era chiaro, era allegro dove suo padre era rigido, era un figlio di quella terra e la guardava con ammirazione ma anche con allegria. “Signor Pedro” disse offrendogli dei pasticcini durante un piccolo ricevimento che suo padre aveva voluto organizzare per festeggiare l’ennesimo successo.
“Signor Pedro…”
“Buona sera madame Lola”
“Avrei una domanda da farle”
“Mi dica” disse addentando il pasticcino e sporcando di zucchero a velo i baffi neri.
Gli altri erano riuniti a chiacchierare in piccoli gruppetti, attorno a loro non c’era nessuno.
Pedro la guardava in attesa. Lola allungò il collo, sollevò il mento e fece rigide le spalle ancora più del solito.
“Avrei una domanda da farle”, ripeté, “le spiacerebbe sposarmi?”
Jane Pancrazia Cole
Dal mio punto di vista? Di poteri non ne ho nessuno, sono gli altri ad essere desolatamente normali. La loro tridimensionalità è un piattume che fatico ad osservare.
Sono troppo spensierata mi dicono, ma non posso fare a meno di trarre la gioia dalla mia quotidianità quando posso attrarre a me qualsiasi cosa io desideri con la facilità con cui mi vesto di un sorriso.
Mi piace danzare, e roteare, con i miei abiti vellutati, e nel mio vorticare attiro gli sguardi di chi è smarrito nella propria quotidianità dagli angoli ragionevoli.
Se ruoto abbastanza veloce, posso sparire, smetto di riflettere la luce che può incontrare i loro occhi ordinari, divento altro.
Scelgo talvolta di non essere trovata, e scelgo spesso di guardare oltre, nelle dimensioni che gli altri non possono vedere, vi cerco la bellezza.
Quando lo desidero, ciò che tocco si può cristallizzare in un eterno presente e si allunga all’infinito, sospeso sull’orlo della mia pelle, perché posso flirtare col tempo, che mi è amico. Quando lo incontro, il tempo, lo sfioro con la punta delle mie dita e ci osserviamo con calma in un istante eterno. Interrompo il contatto ed è già lontano.
Mi chiedono perché così splendida io sia ancora single, ma io sono molto più che single, sono una singolarità.
Io mi basto e mi completo, mi riempio e sono luce, anche quando per i loro occhi risulto assente, custodisco il tesoro che mi rende invincibile e plasmo ciò che mi circonda come voglio, perché non sono imbrigliata nei confini che mi attribuiscono. Se pensate che il mio sorriso sia solo due labbra e dei bei denti, vi siete persi un viaggio infinito tra i miei ossi alveolari.
Spesso mi hanno chiamato supereroe, e mi hanno chiesto come usassi le mie capacità per salvare il mondo.
Non condivido il loro punto di vista, e non perdo tempo a cercare di spiegare cosa significhi la mia esistenza. Mi chiamo Singleton e custodisco il segreto che rende l’universo possibile.
Jane Pancrazia Cole
“Non l'ho mai raccontato a nessuno... che in un giorno d'estate, con trenta gradi e una cappa d'afa, a poco a poco, si respira gelo, soffia un vento sospeso di parole non dette per timore, per orgoglio, per pregiudizi, a scoprire i sentimenti; e d'un tratto sembra la scena di un teatro, dove le attrici sono manichini di cera in una vetrina; incomprensioni che ingabbiano le vite, ragioni che rimbalzano come una palla su muri di gomma; e quanta fatica per trovare un punto d'incontro e per spiegare le ali, per essere in pace con la vita.”
Naomi
Dal mio punto di vista? Di poteri non ne ho nessuno, sono gli altri ad essere desolatamente normali. La loro tridimensionalità è un piattume che fatico ad osservare.
Sono troppo spensierata mi dicono, ma non posso fare a meno di trarre la gioia dalla mia quotidianità quando posso attrarre a me qualsiasi cosa io desideri con la facilità con cui mi vesto di un sorriso.
Mi piace danzare, e roteare, con i miei abiti vellutati, e nel mio vorticare attiro gli sguardi di chi è smarrito nella propria quotidianità dagli angoli ragionevoli.
Se ruoto abbastanza veloce, posso sparire, smetto di riflettere la luce che può incontrare i loro occhi ordinari, divento altro.
Scelgo talvolta di non essere trovata, e scelgo spesso di guardare oltre, nelle dimensioni che gli altri non possono vedere, vi cerco la bellezza.
Quando lo desidero, ciò che tocco si può cristallizzare in un eterno presente e si allunga all’infinito, sospeso sull’orlo della mia pelle, perché posso flirtare col tempo, che mi è amico. Quando lo incontro, il tempo, lo sfioro con la punta delle mie dita e ci osserviamo con calma in un istante eterno. Interrompo il contatto ed è già lontano.
Mi chiedono perché così splendida io sia ancora single, ma io sono molto più che single, sono una singolarità.
Io mi basto e mi completo, mi riempio e sono luce, anche quando per i loro occhi risulto assente, custodisco il tesoro che mi rende invincibile e plasmo ciò che mi circonda come voglio, perché non sono imbrigliata nei confini che mi attribuiscono. Se pensate che il mio sorriso sia solo due labbra e dei bei denti, vi siete persi un viaggio infinito tra i miei ossi alveolari.
Spesso mi hanno chiamato supereroe, e mi hanno chiesto come usassi le mie capacità per salvare il mondo.
Non condivido il loro punto di vista, e non perdo tempo a cercare di spiegare cosa significhi la mia esistenza. Mi chiamo Singleton e custodisco il segreto che rende l’universo possibile.
Marina Alice Cibin
Maya amava il Natale, trovava inebrianti le luminarie della città, le decorazioni dei negozi; profumava persino la casa spargendo ovunque scorze di agrumi e sorseggiava con piacere vari infusi speziati. Sua madre Emma invece rimaneva piuttosto indifferente all’atmosfera delle feste. Non che Maya avesse mai avuto una spiegazione in merito a quello strano fenomeno, ne prendeva semplicemente atto ogni anno, sperando che prima o poi la donna cambiasse idea. Con i pochi risparmi della paghetta aveva comprato un piccolo albero sintetico, che decorava con palline dai colori diversi.
Ve lo dico perché l’ho conosciuto, una notte d’inverno di inizio dicembre al bancone del Civili (n.d.r. storico locale livornese) davanti ad un ponce al mandarino caldo caldo.
Vi descrivo brevemente la scena, per come me la ricordo. È passata nella mia mente così tante volte, oramai, che mi sembra quasi di averla vissuta ieri e non anni ed anni fa.
Quell’uomo grande e grosso, con un vestito oramai consunto, le mani piene di galle di chi lavora duramente, il capo chino e pensieroso di chi ne ha viste tante, mi fa, dopo avermi pestato un piede ed urtato pesantemente per alzarsi e cercare di dirigersi – forse - in direzione bagno: “Ma sono bria’o?”.
“No no, non si preoccupi, ha solo qualche macchia di alcol e zucchero qua e là sul vestito rosso” – provo a dire.
“De, e regali fii” – mi risponde, come a dire “non si preoccupi, signore, non fa niente” e mi abbraccia, con quel barbone oramai appiccicoso e puzzolente. Credo fosse seduto là dall’inizio del pomeriggio e che quello fosse il trentesimo ponce.
Quando mi ha mostrato il bicipite ed il suo tatuaggio, ho deciso di fare quello che si fa in questi casi: gli ho preso lo smartphone ed ho chiamato il primo numero nel registro delle chiamate. Nientepopodimeno che La Befana.
Una mezz’ora più tardi mi ero ritrovato seduto al bancone con lei. La Befana.
“È saòsa? Un è mi’a che aggaisce di fame! C’ha solo d’andà in pensione a fine anno.” - A quanto pare, Babbo Natale aveva anche fatto proprio il detto “moglie e buoi dei paesi tuoi”.
Continuando: “È tarmente allezzito che du’ citti in meno a fine mese ni fanno bruciaùlo. Be’ mi’ vaini, chissà che fine ni ha fatto fa’’” – come a descrivere un Babbo Natale moderatamente tirchio e ben poco avvezzo alla gestione dei soldi.
Quindi, il povero Babbo Natale era soltanto un anziano fragile in depressione pre-pensionamento.
Che uomo! Che cuore!
Quella è stata la prima e l’ultima volta che li ho visti. In realtà, l’ultima volta che sono stati visti da qualcuno.
“Tip tap tip tap
Questa è l’ora l’ora dei folletti
Tip tap tip tap
Pazzerelli saltano i folletti
Nella casa
Stiam cercando cose buone e dolci da mangiare
Pazzerelli saltano i folletti
Stiam cercando proprio te.”
Questa è la melodia che ha accompagnato l’irruzione ed il mio accerchiamento da parte di 10 stupidi folletti nel mio salotto, qualche settimana dopo. Non sembravano dolci-teneri-pazzerelli: vi dico solo che non riesco più a guardare Netflix da solo nel mio salotto.
Recitando lentamente “tip tap tip tap” si sono allontanati ed è rimasto solo un folletto un po’ più alto, con la giacca ed incravattato.
“Signor Brucialippa” – sapeva anche il mio nome! – “la mia visita non è casuale. Lei è l’ultima persona ad aver visto Babbo Natale e la Befana. Dal 7 dicembre Babbo Natale numero 17 è completamente scomparso nel nulla.”
“Il Natale è in pericolo!” – sono saltato giù dal divano, già immaginandomi come l’eroe di un film natalizio o l’eroe in tutte le testate di giornale: “il Signor Brucialippa salva il Natale”.
“Signor Brucialippa” – con quel tono mi ci chiama solo la ragazza che viene a fare le pulizie quando lascio troppo sporco – “La notte di Natale NON è una notte improvvisata.
Nemmeno Amazon ha un sistema così fitto ed organizzato di ricevimento missive, magazzini locali, spie diffuse in tutto il mondo per segnalare, per esempio, che la nonna o la zia non abbia già comprato il regalo che il bimbo desidera.
Quindi non si preoccupi del Natale. Si preoccupi di dirmi TUTTI i dettagli, movimenti o frasi che quei due sciagattati hanno fatto o detto”.
Nonostante l’accento nordico e l’atteggiamento a signorina Tumistufi, qualcosa da quei due “sciagattati” l’aveva presa.
“Il Vecchio era sempre stato un po’ strano. Essendo tutto ben organizzato, lui doveva fare solo da uomo-immagine.
Eppure una cosa la voleva fare, disgraziato.
Girava per le case – tutte le case del mondo – la notte dell’8 dicembre e rubava un addobbo, un vecchio regalo, un oggetto non molto visibile. VOI pensate l’abbia rotto il gatto; VOI pensate che sia rimasto in chissà quale scatolone. No. Era lui, Babbo Natale numero 17. Il Ladro.
Rubava ai ricchi per dare ai poveri? Macchè! Per dare a sé stesso.
Gli piaceva avere l’Albero ed il Presepe più grandi del mondo.
Pazzo di un numero 17.
Ora, il numero 18 è un tedesco fanatico. Ha scoperto il magazzino “diverso” e si è ricordato di un oggetto che gli è sparito un Natale di 20 anni fa di cui non si era mai dato pace. Purtroppo il magazzino “diverso” non ha il catalogo digitale e cercare là dentro un piccolo oggetto di chissà quale forma è un delirio.
Vuoi farmi lavorare in pace col nuovo capo? Eh?” – mi aveva preso improvvisamente per la collottola, mentre per il resto del tempo aveva camminato in cerchio muovendo esagitatamente le mani e parlando a sé stesso. Tanto che nel frattempo mi ero fatto un thè per dimenticarmi degli elfi.
Io non avevo saputo aiutarlo.
Ma quell’incontro con Babbo Natale e la Befana non lo dimenticherò mai.
Ogni volta che ci penso mi viene da fumare. Ho iniziato di nuovo subito dopo quel 7 dicembre. Mi sono trovato un accendino in tasca con sopra incisa una birra dell’Oktoberfest e..voilà! Chissà dove l’ho recuperato.
Sono quegli oggetti che recuperi, che perdi e non te ne accorgi nemmeno.
Gli accendini sono come gli ombrelli, no? O come la decima pecora del Presepe...
Marianna Palmerini
***
Avrebbe tanto voluto aprire quella scatola in legno – posta nello scaffale più alto del ripostiglio – con su scritto “Vecchie decorazioni da non usare”, ma era sigillata e ogni volta che chiedeva a sua madre che cosa contenesse, riceveva sempre la stessa risposta: “Tu fai finta che non esista”.
C’era solo un addobbo natalizio che Emma ogni anno si prendeva cura di togliere da una sacca di pesante velluto rosso pieno di morbida ovatta: la statuina di un soldatino Schiaccianoci, proprio come quello dell’omonimo balletto, con tanto di giubba rossa, barba bianca, corona dorata e bastone di ordinanza; Emma era stata una ballerina professionista prima che Maya nascesse e lo Schiaccianoci di Marius Petipa era il suo balletto preferito, portava la figlia a vederlo ogni volta che quella rappresentazione era in città, soprattutto nel periodo natalizio. Maya gioiva nel vedere la madre che felice canticchiava tra sé le note tanto conosciute, seguiva i passi con un lieve movimento del capo, piangeva durante la danza dei fiocchi di neve.
Sì, di quel periodo era decisamente quello il giorno che la ragazza preferiva.
La notte della vigilia Maya fu svegliata da un tonfo, si girò verso sua madre che invece dormiva tranquilla e scese dal letto per andare a vedere cosa fosse successo. Era certa che il rumore fosse stato in sgabuzzino e mentre vi si avvicinava sentì anche dei lievi bisbigli, che crescevano di intensità man mano. Aprì la porta e accese la luce: i bisbigli sparirono ma si preoccupò non poco nel vedere la scatola in legno proibita che giaceva semi aperta sul pavimento, facendo trapelare tutto il suo contenuto. Erano delle decorazioni bellissime: tutte dipinte a mano, in vetro, ceramica, legno, di tutte le forme e dimensioni. Statuine a forma di Babbo Natale, cristalli di vetro; c’erano persino le statuette della favola di “Alice” di Carrol; di Pinocchio, una di un Mariachi col sombrero e tante altre.
Il cuore della ragazza batteva a mille: se sua madre l’avesse scoperto? Se qualcuna di queste si fosse rotta nella caduta? Rimase incerta sul da fare quando d’improvviso una voce: “È tardi, è tardi è tardi! Che aspetti a portarci in un posto sicuro?”
Dallo spavento per poco non fece scivolare il Bianconiglio dalle sue mani.
“Tu parli?”
“Shhh, o Emma potrebbe sentire!” Disse un’altra voce dalla scatola.
“Ma che diavolo…”
“Nessun diavolo ragazzina, noi portiamo gioia.”
“Siamo rimasti chiusi dentro tutti questi anni a fare la muffa, altro che gioia!”
Si lamentò un’altra voce.
Maya era terrorizzata. Stava sognando?
“Vamos vicino all’albero e te esplicheremo todo!”
E lei molto lentamente, ancora in stato di shock, obbedì al piccolo mariachi.
Una volta lì anche lo Schiaccianoci parlò: “Ce ne avete messo di tempo!”
“Zitto tu, che sei l’unico che proprio non può lamentarsi!” Gli inveì contro Alice.
“State tutti bene?” chiese Il Re di Cuori.
“Io mi sono rotto in due pezzi, ma non sono grave.” Disse un angelo di coccio.
“A me manca una punta.” Disse un intarsiato abete in legno.
“Insomma voi chi siete?”
Il Re di Cuori continuò: “Noi siamo le vecchie decorazioni dell’albero di Natale di Emma, alcuni di noi abbellivano addirittura l’albero della casa dei tuoi nonni a New York. Proveniamo da tutto il mondo, da tutti i posti in cui tua mamma ha vissuto e in cui ha viaggiato prima che tu nascessi. Vedi? Lui proviene da Amsterdam, lui da Stoccolma, io da Oxford...”
“Viaggiava per via della danza?”
“Non solo, era una passione che aveva in comune con tuo padre.”
“Oh, stavi andando così bene…” disse un pennuto giallo su una calza grandissima con scritto ‘Sesame Street’.
“Non preoccuparti.” Rispose Maya “Ho pochi ricordi di lui e mamma non ama parlarne.”
“Dopo che tuo padre ha avuto l’incidente ricordare i momenti con lui le faceva troppo male e così ci ha messo tutti nella scatola.”
“Ha messo tutti noi, non te.”
“Alice ha ragione: tutti loro. Io sono stato risparmiato perché non faccio parte di quei ricordi.”
“Io provengo da un romanticissimo week end a Praga proprio nei giorni di Natale”. Disse una campanella di cristallo.
“Anche io sono stato comprato a Natale.”
“Anche io…”
“Pure io…”
“Ora capisco.” Disse Maya “Ma perché parlate? La scatola è caduta per un incidente? Io non voglio finire nei guai!”
“Abbiamo sempre parlato ma mai in tua presenza! È il tuo spirito natalizio che ti dà il potere di sentirci, io l’ho sempre percepito e mentre me stavo dentro l’ovatta ho proposto agli altri di provare il tutto e per tutto, sperando nel tuo supporto”.
“Io non ho mai voluto parlarti!”
“Oh Alice, lo Schiaccianoci non ha colpe, non credi? Vi prometto che farò il possibile per aiutarvi. Certo è che avete corso il rischio di rompervi tutti, siete così belli ma così fragili!”
“In realtà Emma ha sempre avuto cura di noi, guarda qui.”
La stessa cura con la quale Emma faceva riposare il soldatino natalizio era stata riposta nella scatola di legno; Maya diede un’ aggiustatina ai pezzi rotti, li pulì per bene e sostituì le palline colorate con quei nuovi amici che scintillavano alle prime luci dell’alba.
Quello sì che era un albero di Natale super.
“Credi che mi metterà in castigo?” Chiese la ragazza al soldatino di legno.
“Ormai sei grande! Falle capire che il suo passato non deve essere un ostacolo alla sua vita, alla vostra vita e vedrai che non ci saranno più decorazioni natalizie rinchiuse, anzi, tante altre si aggiungeranno alla collezione!”
E così fu.
Dedicato a tutte le persone a cui manca viaggiare: non rinchiudete la progettazione di un viaggio futuro in una scatola anzi coltivatela perché prima o poi potremo tornare a vedere il mondo e lui non vorrà vederci impreparati!
Elisa Pozzati