Adelina (terza parte)

Con la morte di quellubriaconedetopa', come lo chiamava mia madre, le cose per noi cambiarono. Eravamo finalmente libere da quella croce ma spaventate per il futuro. A quei tempi avere un uomo in casa, anche se pigro, violento e cattivo, era comunque una gran bella comodità. I creditori erano pazienti con un colosso di 130 kg, i truffatori stavano alla larga dagli ubriaconi maneschi ed i porci non allungavano le loro zampacce sulle ragazze con un padre che le poteva difendere. Per fortuna mia madre sapeva benissimo come andava il mondo, era una gran lavoratrice, aveva il cervello fino e non si faceva né spaventare né truffare.
Noi ci mantenevamo grazie al ricamo. Lavoravamo tutte e tre, tutti i giorni, tutto il giorno per preparare tovaglie, lenzuola e tende per le case delle signore di città. Quella vecchia disonesta della Barbagallo, che a ricamare non era mai stata buona ma a far di conto si, faceva da tramite per tutte le ricamatrici del paese. Lavorava poco e si teneva una commissione altissima, che a ripensarci ancora adesso mi prudono le mani dal nervoso.

La mamma parlava sempre "pane al pane e vino al vino" ed un giorno dritta come un fuso, come un generale di fronte ai soldati, ci disse: "Figlie mie, siamo povere e lo resteremo per sempre. Le ragazze senza dote non si sposano. Un uomo che vorrà convincervi del contrario è un mascalzone e dovrete stargli alla larga." Io ero piccola e all'amore neanche ci pensavo, ma per Lucia che sognava una famiglia con tanti bambini fu un bel rospo da mandare giù, povera anima.
Intanto il tempo passava e mia sorella era ogni giorno più bella, col viso dolce e sereno di una Madonna. Mentre tutti gli uomini del paese la guardavano come se fosse un bel polletto arrosto, di quelli con le cosce tenere e la pelle croccantina.
Anch'io mi stavo faticosamente sgrezzando ma si capiva che bella come Lucia non ci sarei mai diventata. Per mia madre era una benedizione, "Che già così ne ho abbastanza di pensieri" diceva.
Ormai, dopo quasi quattro anni, avevamo raggiunto una stabilità: lavoravamo sodo, riuscivamo a mantenerci ed in paese ci rispettavano. Io credevo che le cose non sarebbero mai cambiate, che saremmo sempre rimaste solo noi tre, ed ero contenta così.
Ma un giorno, tornando a casa da una commissione, mi venne incontro sulla porta mia madre che, felice come non l'avevo mai vista, mi tirò dentro ed esclamò: "Che aspetti? Saluta il tuo futuro cognato"
In mezzo alla stanza c'erano due sedie, su una stava Lucia con gli occhi bassi ed un sorriso timido, e sull'altra un uomo dall'aria goffa ed impacciata. Lo riconobbi subito: era uno dei dieci fratelli Parise, quello che era stato malato da piccolo, quello con il piede destro piegato verso l'interno, quello zoppo.
Era Augusto.

Continua...

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