Capitolo Ventidue: Mi ricordo tutto di quelle ore

Lucia quella sera parlò ad Augusto con il cuore leggero e  pesante assieme.
“So due femmine” gli disse.
“E perché fai quella faccia lì? Nun si contenta? San Giuseppe c’ha fatto la grazia!”
“Sì, ma ce sarà na bocca de più. Facciamo già fatica cuscì”
“Te preoccupi pe questo? Dove mangiano in tre, mangiano pur in quattro. Sta serena Lucia mia, che quando c’hai li pensieri te viene la faccia brutta.”
Augusto non è mai stato un tipo sdolcinato ma neanche uno che si spaventava facilmente.
Augusto era una roccia.

Il travaglio cominciò un mese dopo, al tramonto. Mamma andò da Lucia ed io tenni Sandro ed Enrico.
Mi ricordo tutto di quelle ore.
I bambini erano molto agitati e per farli stare buoni almeno un pochetto l’unica cosa che mi riuscì fu quella di tirare fuori un’altra volta Tizzoncino e la storia sua. Tizzoncino funzionava sempre. A loro però più che l’amore di Reuccio gli interessava se quello scimunito portava la spada oppure no, apriva la pancia agli animali feroci oppure no. C’è poco da fare, i maschi sono bestioline semplici che le raffinatezze non sanno manco dove stanno di casa.
Quei due mascalzoncelli crollarono addormentati solo a sera tarda, raggomitolati vicino alla stufa come due gattini. Me li presi in braccio, prima uno e poi l’altro, prima Enrico che era piccoletto e morbido e poi Sandro, alto, pieno e pesante come un vitello grasso. Li infilai nel lettone con me e rimasi al buio ad ascoltare i respiri loro. Dormirono tutta la notte, mentre io non chiusi occhio: c’avevo troppa voglia di conoscere finalmente le nipotine nuove. Me le immaginavo come Lucia, con le guanciotte rosa e le ciglia lunghe piegate all’insù. Belle come due principessine, due regine, due figlie di signori. Da grandi avremmo insegnato loro a ricamare, ed alla prima delle due che si fosse sposata avrei regalato la catenina di nonna Ada. Sarebbero state eleganti e fini come la mamma loro, ma anche capaci di arrampicarsi sugli alberi e cacciare le rane come me. I loro fratelli le avrebbero protette e rispettate, ed Augusto non le avrebbe mai spaventate o fatte scappare, perché lui non era come babbo nostro.

Scivolai fuori dal letto appena si fece un poco chiaro, mentre Sandro ed Enrico rimasero sotto le coperte a dormire quel sonno profondissimo che c’hanno solo i bambini.
L’aria era fredda, la casa silenziosa ed alla base della gola sentivo come un nodo stretto stretto che non voleva andare né su né giù.
Uscì a prendere le uova ed in cortile incontrai mia madre. Aveva la faccia bianca e gli occhi vuoti. Mi guardava ma non mi vedeva.
Mi si fece vicina e disse piano piano: “I bambini, dobbiamo pensare alli bambini”.

Non l’avevo mai vista piangere, neanche quando era morta Ines, neanche quando babbo l’ammazzava di botte, neanche quando lo stomaco le faceva male dalla fame.
Mamma piangeva e sul cuore mio si apriva una crepa che non sarebbe guarita più. Lucia, Lucia mia, se n’era andata: il Signore si era preso lei e le due gemelline sue.
Dopo tutti quegli anni d’inferno, dopo tutte le cose che avevamo passato, il Signore l’aveva chiamata proprio ora. Ora che era felice, ora che aveva una famiglia. L’aveva lasciata sulla terra quando se ne stava accucciata nella stalla tra la merda di vacca, quando lavorava giorno e notte come una schiava, quando le toccava sopportare gli sguardi sporchi degli uomini. Ed ora che stava tutto alle spalle, ora che aveva un marito che l’amava più dell’anima sua e dei figli che le riempivano il cuore, quel vigliacco se l’era portata su in paradiso, strappandole tutto e strappandola a tutti.

“I bambini, dobbiamo pensare alli bambini.”

Io sarei voluta scappare, correre fino a quando il petto mi scoppiava, per non sentire più il male e manco la paura.
Ma questa volta non potevo, non c’era più Lucia, non rimaneva lei a pensare a tutto. Ero rimasta solo io. Non potevo più andare da nessuna parte. Dovevo rimanere lì. Quello era il posto mio.

I bambini, dovevo pensare ai bambini.

Continua...

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