Il giorno dopo il funerale, appena sveglia, mamma mia mi disse: “Ormai te si fatta grande, è ora che te metti a faticà e che la smetti de startene sempre in giro. Che se te becco ancora a fare la vagabonda te ne do tante ma cuscì tante, che nun te siedi pe na settimana!”
La buonanima di nonna Ada le aveva insegnato a ricamare quando era solo una bambina. Lei aveva fatto lo stesso con Lucia. Ed ora era venuto anche il turno mio.
“Nun so capace”, frignavo col collo storto su una tovaglia.
“Abbiamo imparato tutte, lo farai pure tu.”
“Nun è roba pe me”, insistevo con i diti che mi facevano male e l’umore nero.
“Nun dire fesserie: tu ce l’hai nellu sangue. Tutte le femmine della famiglia mia so ricamatrici.”
“Vor dire che io ho preso dalla famiglia dellu babbo, allora”, ribattevo litigando col filo che mi si attorcigliava tutto e mi faceva uscire pazza.
“Zitta, lavora e nun me fare arrabbià!”
Mai come in quei primi giorni sognai di essere nata maschio con un bel uccello tra le gambe che mi permettesse di farmi i fattacci miei in giro e di lavorare all’aperto. Avrei preferito di gran lunga la fatica dei campi alla tortura del lino, ma purtroppo tra le gambe non avevo un bel niente ed anzi mi stava pure cominciando a crescere il petto.
Io non ci avevo proprio pensato che la vita mia, dopo la morte del babbo, sarebbe cambiata così tanto. Credevo solo che senza di lui saremmo state tutte più serene, mica che mi sarei ritrovata chiusa in casa col sedere incollato alla sedia e gli occhi alla stoffa. Una vita così mi sembrava pure peggio delle botte e, dopo quasi due mesi, mentre mia madre stava fuori a dare da mangiare alle galline e Lucia era al lavatoio con le lenzuola, io feci il giro da dietro la stalla e quatta quatta me ne scappai via. Mica pensavo di non tornare più e di andarmene chissà dove. In realtà non pensavo proprio niente, non m’ero fatta dei progetti o cose così. C’avevo avuto l’occasione, m’avevano lasciato la porta della gabbia mezza aperta ed io ero corsa via. Come la solita bestia che ero.
Ci misi mezza giornata per trovare gli amici miei: al frutteto grande non ci stava nessuno, la casa di Ines era stata tutta sbarrata, e nel bosco rosso c’erano solo i Casotti a caccia di lepri.
Ormai stavo quasi per perdere la speranza quando trovai Teo e Giovanni dietro alla cappella del camposanto. Quei due angioli, tutti corna e zoccoli, stavano cacciando le lucertole. Le pigliavano per la coda, gli davano una bella sassata sulla capoccetta verde, le aprivano in due e poi le svuotavano come dei pescetti.
“Ma che schifezze fate?”
“Guarda nu poco chi ce sta: la sartina nostra”, disse Teo.
“Sartina ce sarà sorella tua.”
“Ma nun eri a faticà?”, mi chiese Giovanni.
“Me so presa na vacanza. Dove so li altri?”
“Li altri chi? Ormai nun ce sta più nisciunu. Semo rimasti solo li mejo”, mi rispose Teo tutto soddisfatto.
“E Maso?”
“Babbo suo se l’è preso a bottega, cuscì l’ha finita de darsi tante arie quellu scemo. E pure Bastiano sta pe i campi a faticà come nu mulo.”
“E Pino?”
“Coglie frutta co lu zio.”
“De già? Ma lui è ancora piccoletto.”
“Nun c’ha più lu babbo e mo deve pensarce lui alla famiglia sua.”
“Gli è morto lu babbo pure a lui?”
“No, nun è morto, se lo so’ portato via.”
“Chi?”
“E che ne so.”
“Ma perché?”
“Quante domande fai Adelì! Perché era nu cojone che nun sapeva starse zitto, cuscì m’ha detto lu babbo mio.”
A quei tempi di queste cose non ci capivo niente ma a pensare che qualcuno s’era portato via il Signor Mariotti, che con me era gentile e a Pino gli diceva sempre “Ad Adelì la devi trattare bene che è na signorina”, mi sentì pungere gli occhi, così girai i tacchi e lasciai quei due alle torture loro.
“Do vai Adelì? Tu ce poi stare co noi, mica s’imbranata come quello scemo de Gino”, cercò di fermarmi Giovanni.
“Lasciala stare a quella. Noi nun c’abbiamo bisogno de nisciunu. De nisciunu! Le femminucce c’hanno lo stomaco troppo delicato”, mi urlò dietro Teo e scoppiò nella sua brutta risata, che era uguale uguale al verso di un porco.
Quei due avrebbero passato tutta la vita assieme. Il gatto e la volpe. Il braccio e la capoccia. Lo scemo e il cattivo. Se ne andarono via dal paese negli anni ‘60, prima un poco di tempo nell’alta Italia e poi in Germania.
Teo è morto vecchio e grasso, con più soldi che capelli, una casa grande quanto una chiesa e una macchinona che manco quelli del cinematografo. Giovanni, invece, è andato al Creatore a quarant’anni senza uno spicciolo in saccoccia ma con un bel buco tra gli occhi vuoti.
Con lo stomaco ancora tutto girato andai a cercare Gino al forno di famiglia e lo trovai che giocava per strada con i fratelli suoi più piccoletti.
“Ce ne andiamo a farce nu giro?”, gli chiesi.
“Certo”, mi rispose tutto contento.
“Vieni in casa Gino”, si mise di mezzo la mamma sua. Un donnone col petto enorme e il carattere da generalessa.
“Ma stavo pe famme nu giretto co Adelina.”
“Vieni in casa, ho detto, nun me lo fare ripetere. Co l’amica tua ce ne devo parlà io.”
Lui mi guardò e sollevò le spalle: “Me spiace, ce vediamo n’altra volta”, e strascicò i piedi fino al cancello di casa.
“Vie qua ragazzè”, mi fece segno la signora Fiorucci, con le mani sui fianchi e le ascelle puzzolenti in bella vista.
Io, che già lo sapevo di non starle simpatica proprio per niente, mi avvicinai con la faccia scura e una gran voglia di litigare.
“Perché dai fastidio a lu figliolo mio?”
“Nun glie do mica fastidio.”
“E nun me rispondere, sa!”
“Ma se nun devo rispondere che me lo chiede a fa’?”
“Gino mio è nu bravo figliolo e nun se deve rovinare a girare co una come a te! Staglie lontano, capito?”
Una come me?
C’avevo solo dieci anni, ero più candida di un lenzuolo di bucato e quella stronza mi chiamava “una come a te”?
Con la faccia rossa di rabbia e gli occhi che buttavano fuoco gli urlai con tutta l’aria che c’avevo nel petto: “Ma chi lo vole allu figlio suo? Se lo pò tenere stretto alle tettone quel piscialletto de Gino. E poi lo sanno tutti che li Fiorucci c’hanno l’uccello piccolo e nun li vole nisciunu!” e scappai via di corsa.
Come si permetteva quella di trattarmi così? Quanto volte avevo salvato il sedere a quell’imbranato del figliolo suo? Non lo sapeva lei? Non sapeva che ero io che avevo preso a sassate il vecchio della vigna, quando questo aveva trovato Gino a fregarsi l’uva e l’aveva rincorso con un fucile? Non sapeva che ero io a fargli da scaletta quando quel culo pesante non riusciva a salire sugli alberi? Non sapeva che ero io che mi fermavo ad aspettarlo quando nelle corse rimaneva dietro a tutti, si teneva la mano sul fianco e manco ce la faceva a respirare?
Quella non sapeva niente ma dava lo stesso aria ai brutti denti marci suoi.
Avevo avuto proprio una bella idea a prendermi quel giorno di vacanza: a casa mi aspettava mamma con le mani che le bruciavano dalla voglia di farmi nera di schiaffi e io avevo passato comunque una giornata talmente schifosa che quasi quasi mi mancava il ricamo.
S’era ormai fatto buio ed io me ne stavo ferma davanti a casa di Ines, a fissare la macchia scura di sangue dove c’era rimasto secco babbo mio, quando l’aria fredda che scendeva dalle montagne portò un puzzo che non sentivo da due mesi. Prima sentì l’odore acido e poi il respiro pesante dietro di me. Il sangue mi si fermò nelle vene ed il cuore mi salì fino al collo.
A voglia a non crederci agli spiriti, “E’ tornato lu babbo a prenderme pe portarme dalli diavuli”, pensai.
Continua...
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La buonanima di nonna Ada le aveva insegnato a ricamare quando era solo una bambina. Lei aveva fatto lo stesso con Lucia. Ed ora era venuto anche il turno mio.
“Nun so capace”, frignavo col collo storto su una tovaglia.
“Abbiamo imparato tutte, lo farai pure tu.”
“Nun è roba pe me”, insistevo con i diti che mi facevano male e l’umore nero.
“Nun dire fesserie: tu ce l’hai nellu sangue. Tutte le femmine della famiglia mia so ricamatrici.”
“Vor dire che io ho preso dalla famiglia dellu babbo, allora”, ribattevo litigando col filo che mi si attorcigliava tutto e mi faceva uscire pazza.
“Zitta, lavora e nun me fare arrabbià!”
Mai come in quei primi giorni sognai di essere nata maschio con un bel uccello tra le gambe che mi permettesse di farmi i fattacci miei in giro e di lavorare all’aperto. Avrei preferito di gran lunga la fatica dei campi alla tortura del lino, ma purtroppo tra le gambe non avevo un bel niente ed anzi mi stava pure cominciando a crescere il petto.
Io non ci avevo proprio pensato che la vita mia, dopo la morte del babbo, sarebbe cambiata così tanto. Credevo solo che senza di lui saremmo state tutte più serene, mica che mi sarei ritrovata chiusa in casa col sedere incollato alla sedia e gli occhi alla stoffa. Una vita così mi sembrava pure peggio delle botte e, dopo quasi due mesi, mentre mia madre stava fuori a dare da mangiare alle galline e Lucia era al lavatoio con le lenzuola, io feci il giro da dietro la stalla e quatta quatta me ne scappai via. Mica pensavo di non tornare più e di andarmene chissà dove. In realtà non pensavo proprio niente, non m’ero fatta dei progetti o cose così. C’avevo avuto l’occasione, m’avevano lasciato la porta della gabbia mezza aperta ed io ero corsa via. Come la solita bestia che ero.
Ci misi mezza giornata per trovare gli amici miei: al frutteto grande non ci stava nessuno, la casa di Ines era stata tutta sbarrata, e nel bosco rosso c’erano solo i Casotti a caccia di lepri.
Ormai stavo quasi per perdere la speranza quando trovai Teo e Giovanni dietro alla cappella del camposanto. Quei due angioli, tutti corna e zoccoli, stavano cacciando le lucertole. Le pigliavano per la coda, gli davano una bella sassata sulla capoccetta verde, le aprivano in due e poi le svuotavano come dei pescetti.
“Ma che schifezze fate?”
“Guarda nu poco chi ce sta: la sartina nostra”, disse Teo.
“Sartina ce sarà sorella tua.”
“Ma nun eri a faticà?”, mi chiese Giovanni.
“Me so presa na vacanza. Dove so li altri?”
“Li altri chi? Ormai nun ce sta più nisciunu. Semo rimasti solo li mejo”, mi rispose Teo tutto soddisfatto.
“E Maso?”
“Babbo suo se l’è preso a bottega, cuscì l’ha finita de darsi tante arie quellu scemo. E pure Bastiano sta pe i campi a faticà come nu mulo.”
“E Pino?”
“Coglie frutta co lu zio.”
“De già? Ma lui è ancora piccoletto.”
“Nun c’ha più lu babbo e mo deve pensarce lui alla famiglia sua.”
“Gli è morto lu babbo pure a lui?”
“No, nun è morto, se lo so’ portato via.”
“Chi?”
“E che ne so.”
“Ma perché?”
“Quante domande fai Adelì! Perché era nu cojone che nun sapeva starse zitto, cuscì m’ha detto lu babbo mio.”
A quei tempi di queste cose non ci capivo niente ma a pensare che qualcuno s’era portato via il Signor Mariotti, che con me era gentile e a Pino gli diceva sempre “Ad Adelì la devi trattare bene che è na signorina”, mi sentì pungere gli occhi, così girai i tacchi e lasciai quei due alle torture loro.
“Do vai Adelì? Tu ce poi stare co noi, mica s’imbranata come quello scemo de Gino”, cercò di fermarmi Giovanni.
“Lasciala stare a quella. Noi nun c’abbiamo bisogno de nisciunu. De nisciunu! Le femminucce c’hanno lo stomaco troppo delicato”, mi urlò dietro Teo e scoppiò nella sua brutta risata, che era uguale uguale al verso di un porco.
Quei due avrebbero passato tutta la vita assieme. Il gatto e la volpe. Il braccio e la capoccia. Lo scemo e il cattivo. Se ne andarono via dal paese negli anni ‘60, prima un poco di tempo nell’alta Italia e poi in Germania.
Teo è morto vecchio e grasso, con più soldi che capelli, una casa grande quanto una chiesa e una macchinona che manco quelli del cinematografo. Giovanni, invece, è andato al Creatore a quarant’anni senza uno spicciolo in saccoccia ma con un bel buco tra gli occhi vuoti.
Con lo stomaco ancora tutto girato andai a cercare Gino al forno di famiglia e lo trovai che giocava per strada con i fratelli suoi più piccoletti.
“Ce ne andiamo a farce nu giro?”, gli chiesi.
“Certo”, mi rispose tutto contento.
“Vieni in casa Gino”, si mise di mezzo la mamma sua. Un donnone col petto enorme e il carattere da generalessa.
“Ma stavo pe famme nu giretto co Adelina.”
“Vieni in casa, ho detto, nun me lo fare ripetere. Co l’amica tua ce ne devo parlà io.”
Lui mi guardò e sollevò le spalle: “Me spiace, ce vediamo n’altra volta”, e strascicò i piedi fino al cancello di casa.
“Vie qua ragazzè”, mi fece segno la signora Fiorucci, con le mani sui fianchi e le ascelle puzzolenti in bella vista.
Io, che già lo sapevo di non starle simpatica proprio per niente, mi avvicinai con la faccia scura e una gran voglia di litigare.
“Perché dai fastidio a lu figliolo mio?”
“Nun glie do mica fastidio.”
“E nun me rispondere, sa!”
“Ma se nun devo rispondere che me lo chiede a fa’?”
“Gino mio è nu bravo figliolo e nun se deve rovinare a girare co una come a te! Staglie lontano, capito?”
Una come me?
C’avevo solo dieci anni, ero più candida di un lenzuolo di bucato e quella stronza mi chiamava “una come a te”?
Con la faccia rossa di rabbia e gli occhi che buttavano fuoco gli urlai con tutta l’aria che c’avevo nel petto: “Ma chi lo vole allu figlio suo? Se lo pò tenere stretto alle tettone quel piscialletto de Gino. E poi lo sanno tutti che li Fiorucci c’hanno l’uccello piccolo e nun li vole nisciunu!” e scappai via di corsa.
Come si permetteva quella di trattarmi così? Quanto volte avevo salvato il sedere a quell’imbranato del figliolo suo? Non lo sapeva lei? Non sapeva che ero io che avevo preso a sassate il vecchio della vigna, quando questo aveva trovato Gino a fregarsi l’uva e l’aveva rincorso con un fucile? Non sapeva che ero io a fargli da scaletta quando quel culo pesante non riusciva a salire sugli alberi? Non sapeva che ero io che mi fermavo ad aspettarlo quando nelle corse rimaneva dietro a tutti, si teneva la mano sul fianco e manco ce la faceva a respirare?
Quella non sapeva niente ma dava lo stesso aria ai brutti denti marci suoi.
Avevo avuto proprio una bella idea a prendermi quel giorno di vacanza: a casa mi aspettava mamma con le mani che le bruciavano dalla voglia di farmi nera di schiaffi e io avevo passato comunque una giornata talmente schifosa che quasi quasi mi mancava il ricamo.
S’era ormai fatto buio ed io me ne stavo ferma davanti a casa di Ines, a fissare la macchia scura di sangue dove c’era rimasto secco babbo mio, quando l’aria fredda che scendeva dalle montagne portò un puzzo che non sentivo da due mesi. Prima sentì l’odore acido e poi il respiro pesante dietro di me. Il sangue mi si fermò nelle vene ed il cuore mi salì fino al collo.
A voglia a non crederci agli spiriti, “E’ tornato lu babbo a prenderme pe portarme dalli diavuli”, pensai.
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