Capitolo quattro: "Augusto"
Augusto mio non è mai stato una gran bellezza.
Era piccoletto con la fronte bassa e tanti capelli duri come il fil di ferro, che per sistemarglieli ogni mattina era una battaglia. Prima di andare in fabbrica lui si sedeva in canottiera, ed io bagnavo il pettine in un catino pieno d’acqua. Stavo in piedi tra le gambe sue e gli tenevo la testa premuta contro il petto. Lui un poco rideva e un poco si lamentava: “Piano Adelì, me voi tirare lu collo come a na gallina?”
“Ma sta zitto tu, che si comodo come tra du guanciali. E tieni le mano apposto sa!” lo sgridavo per gioco, mentre lui faceva il furbo e s’aggrappava ai fianchi miei.
“Bella la moglie mia”, diceva Augù, “morbida come na mozzarella e dolce come nu limone.”
Quel momento della giornata era tutto nostro, e ci piaceva così tanto che andammo avanti a farlo anche quando di capelli ormai glien’erano rimasti pochini.
Quanto mi mancano le mani sue e pure quella voce bassa bassa che usava solo con me. A pensarci mi viene una nostalgia che starei qui a frignare per ore, peggio d’un pupo.
L’amore mio era pure zoppo, perché da ragazzino aveva avuto una brutta malattia, quella che ti lascia con una gamba più piccola dell’altra: la polio. Per camminare c’aveva bisogno del bastone ma lavorava come e più degli altri, faceva il doppio della fatica e non chiedeva mai sconti.
Ma quel pomeriggio di quasi ottant’anni fa, quando lo incontrai per la prima volta, non vidi l’uomo che sarebbe diventato ma solo il ragazzino che era.
Noi disgraziati ci eravamo arrampicati sul muro del cortile suo per arrivare ai frutti di un albero, e da lì l’avevamo visto. Era più grande di tutti noi e se ne stava buono buono, seduto su una seggiola, con una gamba secca e storta che gli sporgeva dai pantaloni corti.
“Ma che c’ha quello?”, chiesi agli altri.
“C’ha avuto na brutta malattia ma adesso sta guarendo”, mi rispose Maso, figlio del ciabattino e di una delle impiccione della piazza, e per questo informato su tutti i fatti del paese, meglio del confessore di Santa Rita.
“A me quella gamba me fa paura.”
“Lo sapevo io. Questa se da tante arie ma è na cacasotto proprio come tutte le femmine”, disse quella lingua velenosa di Teo, che a me non m’ha mai potuta vedere.
Gli altri si misero tutti a ridacchiare. Tutti. Si credevano meglio di me solo perché erano maschi. Come se ci volesse un talento particolare a nascere coll’uccello tra le gambe.
Io sono sempre stata bella fumantina e questo bastò per farmi andare subito il sangue alla testa. E quindi, per dimostrare il coraggio mio e che pure se ero femmina non valevo meno di loro, non trovai niente di meglio che inventare il “tiro allo storpio”.
La storia che tutti i bimbi sono buoni come angioli e solo crescendo si fanno cattivi è una gran fesseria. Alcuni bambini sono senza sentimenti come e più degli adulti ed io, da questo punto di vista, ero proprio un bell’esempio. Ero dispettosa e pure prepotente. Non ne vado mica fiera e non sto qui a vantarmi, ma ero fatta proprio così, e la storia mia o la racconto per benino o non la racconto per niente.
Comunque, a tutto il gruppo di santi con cui m’accompagnavo la mia idea piacque tantissimo. A tutti tranne che a Bastiano: “Mamma dice che Gesù me guarda dallu paradiso e che se faccio qualcosa de brutto se lo segna e poi me manna a bruciare assieme alli diavuli. Io nun ce voglio bruciare colli diavuli!”
Nessuno di noi voleva scottarsi i piedi sui carboni dell’inferno e così decidemmo che non c’era bisogno di colpire davvero Augusto, ma che il vincitore sarebbe stato quello che col sasso si avvicinava di più. Praticamente giocammo a bocce con la capoccia del futuro marito mio.
Per una settimana, quando tutti erano a scuola o nei campi, ci arrampicammo sul muro e ci dedicammo al nuovo passatempo nostro. I giorni andavano avanti e Augusto se ne stava al sole con gli occhi chiusi, senza muoversi. Sembrava che neanche si accorgesse di noi e questo ci faceva ogni volta più sfacciati e curiosi, fino a quella mattina disgraziata.
“Ma nun sarà mica morto?”, si preoccupò Giovanni.
“Ma quanto si scemo? Nun vedi che respira, starà a durmì”, rispose Teo.
“Forse è sordo” azzardò Pino.
“Pe me è solo scemo” la chiusi io, infilando il mio corpo gracilino attraverso una grande crepa del muro ed entrando nel cortile. Iniziai ad avvicinarmi a passi lenti, come un gattaccio secco e nero che vuole mangiarsi un uccelletto.
“Ma che fai? Vieni via!” disse Gino.
“Zitto tu”, lo sgridò Maso, “brava Adelì, vacce vicino! Vacce vicino e mollaglie na sassata sulla capoccia!”
Non ebbi neanche il tempo di alzare il braccio che Augusto spalancò gli occhi e si sporse in avanti.
Vidi solo la fionda che veniva tesa e mi voltai per scappare. Ero quasi alla crepa quando sentì un gran male al fondo schiena, un bruciore peggio del morso d’un cane.
Ma il dolore non mi fece fermare. Corsi fino a quando non sentii più le urla degli amici miei, “Scappa Adelì, scappa!”, e dei Parise che si erano affacciati richiamati da tutta quella confusione, “Acchiappate quei disgraziati!”
Corsi a perdifiato fino a quando non fui sola.
Corsi alla stalla con sedere ed orgoglio fatti a bozzi.
Augusto aveva aperto gli occhi e mi aveva sorriso. Era stato tutti quei giorni fermo, aspettando che uno di noi fosse così scemo da avvicinarsi. Era ancora troppo debole e non poteva alzarsi per venire a darci una lezione, e così aveva atteso tranquillo e con la pazienza d’un santo che fossimo noi ad andare da lui.
La prima a cascarci ero stata io.
Augusto mi aveva fatto fessa. Che gran cornuto!
Continua...
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