La torinesità è uno stato d’essere.
Una serie di abitudini, tradizione e repressione psicologica che gli altri non possono capire.
Non perché gli altri siano fessi ma perché sono ignoranti, nel senso che ignorano.
La napolinesità, romanità, toscanità, sicilianità, e via discorrendo, sono tutti concetti chiari ma della torinesità nessuno ne parla e nessuno la conosce. Nessuno, tranne i torinesi, ovviamente.
Eppure, sarebbe interessante conoscerla e analizzarla dal punto di vista sociologico sì ma, soprattutto, da quello psicologico.
Il perno su cui si basa tutta la torinesità è quello del NonMiOso.
Un mantra, una scelta di vita, una certezza e anche un limite.
L’elemento più castrante tra tutti gli elementi castranti.
Da fuori sembri un algido indifferente. Mentre dentro ti fai tanti di quei problemi di educazione, moralità e opportunità di comportamento, manco ti avessero cresciuto in un collegio svizzero/luterano/nippo… torinese, appunto.
Un mese fa ero in metro, stavo andando al Salone del Libro.
La carrozza era strapiena ma io ero riuscita a ritagliarmi un posticino al fondo, compattata tra seduti e non.
Ero là che rimuginavo tra me e me su quanti soldi investire al Lingotto, quando un uomo e una donna, presumibilmente marito e moglie, dall’età approssimativa di sessant’anni, hanno cominciato a parlare tra di loro.
“Abbiamo dimenticato i biglietti in albergo!” ha detto lui rovistando in una borsa.
“Oh no” ha risposto lei.
“È troppo tardi per tornare indietro”
“Magari ce li faranno stampare in biglietteria dal cellulare”
“Speriamo, altrimenti ci toccherà ricomprarli”
“Cavoli… no”
“E vabbè, che dobbiamo fare?”
“Niente, ma sei sicuro? Hai controllato anche nelle tasche della giacca?”
“Sì, sono sicuro, li ho lasciati sul tavolo”
…
Loro parlottavano e io, seduta a un palmo, non facevo che chiedermi: “Che faccio glielo dico?”
Ci ho messo due fermate - giuro! - per convincermi che no, non sarebbe stato un comportamento invadente ma utile da parte mia, che no, non stavo prendendo un abbaglio e che sicuramente parlavano davvero dei biglietti per il Salone come pensavo stessero facendo e, infine, che sì, probabilmente l’avrebbero scoperto da soli in biglietteria ma se per caso non avessero chiesto? Se non si fossero informati? Se avessero deciso di riacquistare i biglietti e stop?
Insomma, due fermate di: “Che faccio? Mi oso? O NOnMIOso?”
Alla fine l’ho fatto.
Li ho interpellati direttamente.
Sono intervenuta nella conversazione privata tra due sconosciuti.
Mi sono osata.
Ho esordito con un “Scusate se mi permetto”, impicciona ma comunque beneducata.
Per poi spiegare loro che non c’era bisogno di stampare i biglietti e che, se avevano il QR code sul cellulare, quello sarebbe stato sufficiente.
Loro mi hanno ringraziata.
Io sono arrivata al Salone già psicologicamente provata.
Ho raccontato tutto a Marito.
Dice che non sono solo torinese, sono proprio strana.
Lo so.