Augusto ed io siamo nati e cresciuti nello stesso paese. Mentre lui era un tipo tranquillo che passava inosservato, io ero conosciuta e additata da tutti come cattivo esempio. Ero una bambina con il muso sempre sporco, una piccola delinquente, un'erba cattiva, una vagabonda che invece di stare chiusa tra le quattro mura di casa, come una signorina per bene avrebbe dovuto, passava le giornate in giro a combinare chissà cosa e chissà con chi. Secondo il parroco, la perpetua e la maggior parte delle donne il mio destino era quello della femmina perduta.
In realtà io avevo le mie buone ragioni per stare sempre fuori e tutti al paese lo sapevano benissimo. Ma si sa che a farsi i fatti propri si campa cent'anni e degli altri chi se ne fotte!
Mio padre aveva due grandi passioni: il vino e le donne. Il vino lo beveva, le donne le menava. Era grasso e pigro, sempre troppo stanco per alzare il sedere e andare a lavorare, ma quando c'era da rincorrerci con la cinghia recuperava tutte l'energie. Ribaltava il tavolo, rompeva le sedie e ci urlava dietro le peggio cose, tanto che io a cinque anni conoscevo certi insulti da fare rigirare i morti nelle tombe e far cadere l'aureola ai santi.
Mia madre, che pesava cinquanta chili bagnati, rimaneva ad affrontarlo, rispondendo colpo su colpo e soprattutto bestemmia su bestemmia, mentre mia sorella ed io correvamo a nasconderci.
Lucia, più grande e giudiziosa, era capace di starsene accucciata nella stalla per ore, aspettando che le urla e le botte finissero, ma io non ce la facevo, a me bruciava la terra sotto i piedi. Così correvo via a cercare la banda dei maschi, che io con le femmine non mi ci sono mai trovata.
Andavamo allo stagno a catturare le rane, giocavamo alla guerra, prendevamo a sassate il cane rabbioso della Pazza, ma la cosa che ci piaceva di più era esplorare la casa diroccata della signora Ines, buonanima. Gli scalini erano quasi tutti marci, i vetri alle finestre rotti e dentro i pochi mobili rimasti si potevano trovare tante bestie diverse: ragni grossi come pagnotte, qualche lepre di passaggio e parecchi topi. A noi un posto così sembrava il paradiso, ci passavamo le ore sfidandoci per vedere chi fosse il più coraggioso e chi il più fifone. Gino, detto il piscialetto, perdeva sempre e gli toccava continuamente pagare pegno. Una volta gli tirarono tutti uno scappellotto, tutti tranne me: "Non ti tiro uno schiaffo se mi fai vedere il pisello", gli dissi.
Lui alzò le spalle e abbassò i pantaloncini. Fu una vera delusione. Mi sembrava impossibile che un coso così insignificante potesse fare tanta differenza. A mio padre bastava quel cosino mollo per comportarsi da padrone? Ovviamente anche due mani grosse come badili lo aiutavano parecchio.
Mia madre era uno scricciolo di donna ma era grande, grandissima. Mio padre era un uomo grosso ma una persona piccola piccola e quando morì, nel 1934, nessuno di noi lo pianse.
L'unica cosa triste fu che in quell'occasione mia madre decise che anch'io, ormai dodicenne, ero abbastanza grande per lavorare e che i miei giorni con la banda erano finiti, "Che se ti becco ancora ad andare in giro te ne dò tante ma così tante che non ti siedi per un mese!"
Continua...
Prima parte
In realtà io avevo le mie buone ragioni per stare sempre fuori e tutti al paese lo sapevano benissimo. Ma si sa che a farsi i fatti propri si campa cent'anni e degli altri chi se ne fotte!
Mio padre aveva due grandi passioni: il vino e le donne. Il vino lo beveva, le donne le menava. Era grasso e pigro, sempre troppo stanco per alzare il sedere e andare a lavorare, ma quando c'era da rincorrerci con la cinghia recuperava tutte l'energie. Ribaltava il tavolo, rompeva le sedie e ci urlava dietro le peggio cose, tanto che io a cinque anni conoscevo certi insulti da fare rigirare i morti nelle tombe e far cadere l'aureola ai santi.
Mia madre, che pesava cinquanta chili bagnati, rimaneva ad affrontarlo, rispondendo colpo su colpo e soprattutto bestemmia su bestemmia, mentre mia sorella ed io correvamo a nasconderci.
Lucia, più grande e giudiziosa, era capace di starsene accucciata nella stalla per ore, aspettando che le urla e le botte finissero, ma io non ce la facevo, a me bruciava la terra sotto i piedi. Così correvo via a cercare la banda dei maschi, che io con le femmine non mi ci sono mai trovata.
Andavamo allo stagno a catturare le rane, giocavamo alla guerra, prendevamo a sassate il cane rabbioso della Pazza, ma la cosa che ci piaceva di più era esplorare la casa diroccata della signora Ines, buonanima. Gli scalini erano quasi tutti marci, i vetri alle finestre rotti e dentro i pochi mobili rimasti si potevano trovare tante bestie diverse: ragni grossi come pagnotte, qualche lepre di passaggio e parecchi topi. A noi un posto così sembrava il paradiso, ci passavamo le ore sfidandoci per vedere chi fosse il più coraggioso e chi il più fifone. Gino, detto il piscialetto, perdeva sempre e gli toccava continuamente pagare pegno. Una volta gli tirarono tutti uno scappellotto, tutti tranne me: "Non ti tiro uno schiaffo se mi fai vedere il pisello", gli dissi.
Lui alzò le spalle e abbassò i pantaloncini. Fu una vera delusione. Mi sembrava impossibile che un coso così insignificante potesse fare tanta differenza. A mio padre bastava quel cosino mollo per comportarsi da padrone? Ovviamente anche due mani grosse come badili lo aiutavano parecchio.
Mia madre era uno scricciolo di donna ma era grande, grandissima. Mio padre era un uomo grosso ma una persona piccola piccola e quando morì, nel 1934, nessuno di noi lo pianse.
L'unica cosa triste fu che in quell'occasione mia madre decise che anch'io, ormai dodicenne, ero abbastanza grande per lavorare e che i miei giorni con la banda erano finiti, "Che se ti becco ancora ad andare in giro te ne dò tante ma così tante che non ti siedi per un mese!"
Continua...
Prima parte